
LA LONTANANZA
Attraversato il fitto strato di nuvole la notte si rischiarò all’improvviso, in quanto all’orizzonte apparvero le luci della costa siciliana. L’aereo perse decisamente quota e, superata Messina, iniziò la manovra d’atterraggio su Catania. L’Etna, che apparve all’improvviso, visto da quell’altezza era null’altro che una massa nera con al centro un punto di rossa brace, un confortante punto di riferimento nel buio della notte.
Seguendo le indicazioni degli interfoni, tutti i passeggeri indossarono la cintura di sicurezza ed iniziò a serpeggiare nell’aria quel sottile mal dissimulato nervosismo, che sempre precede le fasi dell’atterraggio.
L’ingegner Doppini depose nella borsa di cuoio di buona fattura artigianale le numerose carte che aveva continuato a leggere durante tutta la durata del volo, annotandole qua e là con una scrittura minuta e regolare e sottolineando frasi e parole, del tutto disinteressato al paesaggio sottostante, forse perché lo conosceva a memoria. Volava tantissime volte in un anno, esclusivamente per lavoro, e quei viaggi su e giù da Milano a Catania non suscitavano in lui più nessuna emozione.
Erano anni di fermento quegli anni settanta in Italia, perché si pensava ancora di sviluppare un polo per l’estrazione e la raffinazione del petrolio nel siracusano. L’ingegner Doppini era l’autore di uno dei progetti più importanti, per cui era costretto a dividersi tra San Donato Milanese, ove aveva sede l’AGIP, azienda della quale era divenuto in breve uno stimato dirigente, e Augusta, ove trovavano realizzazione pratica quei progetti. L’ingegnere passava quindi al Nord lunghe settimane fitte di incontri, di riunioni, di discussioni, per poi trascorrere un analogo periodo al Sud, per mettere in pratica tutto ciò che era stato definito a tavolino nelle settimane precedenti e verificare il lavoro che nel frattempo era stato svolto in sua assenza. Tutto ciò andava avanti ormai da più di tre anni. Il lavoro, pur assorbendolo totalmente, non pesava più di tanto all’ingegnere; ciò a cui non si era ancora rassegnato erano però questi lunghi periodi di assenza dalla famiglia, di lontananza dalle persone care.
L’aereo, rullando fortemente, si posò sulla pista e dopo poco si arrestò. I passeggeri scesero e, trasferitisi nel salone degli arrivi, si avviarono verso i nastri trasportatori per attendere l’arrivo delle valigie. Chissà perché ci voleva quasi sempre più tempo a recuperare i bagagli, che non a compiere l’intero viaggio da Linate a Catania! Ma questo disagio era proprio poca cosa e si poteva ben sopportare, perché dopo pochi minuti l’ingegner Doppini si sarebbe trovato tra le braccia di Sara, la sua compagna, e avrebbe potuto baciare nuovamente il loro piccolo bambino; la sua permanenza in Sicilia questa volta si sarebbe protratta per una ventina di giorni, durante i quali avrebbe potuto riassaporare con calma le gioie della vita in famiglia: Sara ed il loro figlioletto, ai quali avrebbe dedicato ogni ora del suo così esiguo tempo libero.
Recuperate finalmente le sue due valigie, si avviò verso l’uscita e accanto ai cancelletti vide, come ogni volta che giungeva a Catania, qualunque fosse l’orario del suo arrivo, radiosa e sorridente Sara con in braccio il loro bambino di un anno. La giovane donna agitò festosa il braccio in segno di saluto e, presa la manina del figlio nella sua, l’agitò con analoga allegria.
La giovane donna era stata la segretaria ventenne assegnata al quarantenne ingegner Doppini: di lei, appena giunto ad Augusta, si era subito innamorato, contraccambiato con pari slancio dalla ragazza, nonostante la cospicua differenza d’età. Allorché Sara inevitabilmente rimase incinta, in quanto nei loro incontri non risparmiavano certo gli slanci d’amore, l’ingegner Doppini la fece dimettere dal lavoro, sia per evitare chiacchiere inutili, in un ambiente ancora piuttosto di strette vedute, sia soprattutto affinché potesse dedicarsi unicamente al loro figlioletto.
Lui le corse incontro; come furono accanto uno all’altra, lasciò cadere le valigie e strinse entrambi in un forte abbraccio, posando le sue labbra impazienti su quelle della compagna. Così stretti l’uno all’altra, si avviarono all’uscita dell’aeroporto, scambiandosi parole miste a veloci baci, e raggiunsero l’automobile, in quanto ora li aspettava una buon’ora di viaggio lungo la stretta e trafficata litoranea prima di giungere alla loro casetta di Brucoli, grazioso e tranquillo paesino sul mare a pochi chilometri da Augusta.
“Tano, Tano” – sussurrava Sara sulle labbra dell’ingegnere nei momenti d’intimità – “Tano, più non devi partire, stai sempre qui con me e il figlio tuo, sposiamoci”.
Quei venti giorni passarono inesorabili, quasi di corsa, come passano implacabili e veloci tutti i giorni della vita. L’ingegner Doppini trascorse quasi tutte le giornate in cantiere; pur tuttavia riuscì a ritagliare qualche spazio del suo tempo anche per Sara, per sbrigare delle commissioni. Ma la loro vera giornata iniziava verso le nove di sera, quando, dopo che – tra i borbottii di Sara, che veniva tassativamente estromessa da quel momento lavorativo – lui s’era rinchiuso nella stanza da letto per telefonare a Milano per sentire le ultime novità (“Non è colpa mia, Sara, se il mio vice rientra in ufficio a quest’ora: a Milano si lavora duro, sai?”), messo a letto il bambino, apparecchiata la tavola sulla terrazza della loro casetta sul mare, indugiavano a cenare a lungo, senza fretta, raccontandosi a vicenda come avevano trascorso la giornata. Dopo un ultimo brindisi, con negli occhi lo splendore del mare scintillante sotto i raggi della luna, lui s’alzava, prendeva in braccio Sara, così piccola e minuta, e dondolandola, sussurrandole nell’orecchio una nenia infantile, entrato nella loro camera, la adagiava delicatamente sul letto per la notte d’amore che si faceva sempre più triste di giorno in giorno, mano a mano che s’avvicinava la fine del soggiorno di Sebastiano in Sicilia.
All’aeroporto di Catania al cancelletto delle partenze Sara, con in braccio il figlioletto, gli occhi gonfi di pianto, salutava con ampi cenni della mano il suo uomo, che partiva ancora una volta per il freddo Nord, freddo come il gelo che era sceso nel suo cuore. I venti giorni appena trascorsi erano stati brevi come venti secondi, eppure quelle venti notti le avevano fatte durare come vent’anni. Questa volta l’attesa sarebbe stata un poco più lunga, una trentina di giorni le aveva detto Tano, e a lei non sarebbe restato altro da fare che attendere la telefonata serale che il suo uomo le faceva immancabilmente.
Dopo una ventina di minuti dal decollo, l’aereo, che stava riportando all’aeroporto di Linate l’ingegner Doppini, stava sorvolando l’immenso golfo di Napoli; mentre il velivolo sorvolava la penisola sorrentina e le sue isole, giunsero gli assistenti di volo e portarono il vassoio per il solito caffè e biscotti. L’ingegner Doppini era stato come sua abitudine silenzioso ed immerso fino a quel momento nella lettura delle sue carte, che aveva continuato ad annotare; ora le aveva riposte in bell’ordine nella sua borsa di cuoio, per poter abbassare il tavolinetto e bere il caffè con comodo. S’era disinteressato totalmente del suo vicino di poltrona: si trattava dell’ingegner Rimoldi, che era stato anche lui a Catania per lavoro. Quest’ultimo ingegnere aveva steso un progetto con alcune soluzioni piuttosto innovative nel campo dell’informatica, che potevano aprire nuove interessanti prospettive di marketing; il progetto aveva suscitato l’interesse dei grandi capi della multinazionale nella quale lavorava: perciò l’avevano inviato in missione esplorativa in Sicilia per un paio di giorni per illustrarlo ai colleghi isolani, onde sondare le nuove possibilità commerciali anche in quella regione. Negli anni ’70 l’informatica muoveva i primi passi, specie nell’isola. L’ingegner Doppini si volse verso di lui e gli sorrise in modo accattivante, quasi si fosse accorto solo in quel momento della presenza del suo vicino di poltrona. Allungò familiarmente una mano sottile e ben curata verso di lui e, sorridendo forse in modo un poco troppo cerimonioso, si presentò: “sono l’ingegner Sebastiano Doppini e lavoro all’AGIP. Dipartimento nuovi progetti”.
L’ingegner Rimoldi fu preso un poco alla sprovvista dall’inaspettato attacco del suo vicino, perché in aereo preferiva starsene per i fatti propri. In ogni caso fu giocoforza presentarsi a sua volta, perché non voleva certo sembrare scortese, specie con una persona che oltretutto s’era rivelato essere un collega.
“Piacere, sono l’ingegner Vittorio Rimoldi e lavoro all’IBM, filiale di ricerca nuovi mercati”.
“Allora siamo colleghi: potremmo quasi darci del tu” – proseguì il suo invadente compagno di viaggio. E poi, proseguendo: “anche se operiamo in settori diversi. Ma entrambi cerchiamo cose nuove, affinché gli altri le possano vendere e l’umanità intera beneficiarne e gli azionisti delle nostre società arricchirsi. E noi portare a casa un aumento di stipendio, perché se si ha una famiglia, amico mio, i soldini non bastano mai”.
Rise. L’ingegner Rimoldi non sapeva se il suo vicino di viaggio si aspettasse da lui una qualche risposta arguta o magari addirittura intelligente: in ogni caso, non sapendo che cosa dire, guardò distratto attraverso il finestrino. Sperava che, grazie al suo silenzio, il suo compagno di viaggio desistesse dall’abbordaggio, ma l’ingegner Sebastiano Doppini, implacabile, proseguì. “Mi sono fermato venti giorni in Sicilia” – informò il suo collega di studi e di sventura, probabilmente sperando di suscitare in lui un qualche vago interesse verso le sue vicende professionali. L’ingegner Rimoldi cercò di affettare una distaccata indifferenza, per far cadere il discorso, ma il suo compagno proseguì, senza mollare l’osso che aveva appena addentato: “con il lavoro che faccio io mi devo dividere in continuazione tra Nord e Sud per lunghi periodi, anche intere settimane”.
“Io no” – si sentì in dovere di rispondere, tanto per non sembrare maleducato, il giovane ingegnere – “è ben vero che ogni tanto mi tocca viaggiare, anche all’estero, ma solo per due o tre giorni, a volte vado e vengo addirittura in giornata”.
“Lei è fortunato” – proseguì il suo inarrestabile vicino, che aveva iniziato a dilagare attraverso la falla che inequivocabilmente aveva aperto – “perché così non sentirà il peso d’essere lontano dalla sua famiglia”.
Ritenuto del tutto esaurito l’argomento lavoro, ora l’ingegnere passava all’argomento famiglia, che tra compagni di volo è il più lacrimevole e assolutamente da evitare.
“La lontananza dalla famiglia: è questa una cosa per me intollerabile, alla quale non riuscirò mai ad abituarmi”.
L’ingegner Rimoldi non rispose ma l’ingegner Doppini continuò: “La gioia più grande per me, dopo una lontananza di qualche settimana, è ritornare a casa e ritrovare la mia famiglia. Sa, ho una compagna” – e qui abbassò la voce in modo quasi complice, tanto che il giovane ingegnere fece non poca fatica a capire ciò che gli stava bisbigliando – “ma cos’è poi una compagna? un po’ meno di una moglie, un po’ più d’un’amante, lei mi intende vero? del resto, per dirla tutta, cos’è oggi il matrimonio? L’importante è l’amore e quindi è proprio con una compagna che ci può essere un legame ancora più forte, proprio perché non obbligato da un qualche contratto stipulato davanti ad un prete o a un sindaco. Solo con una libera convivenza si può provare il vero amore. Lei mi capisce certamente, immagino, mi sembra un giovane molto aperto e privo di pregiudizi, del resto siamo alle soglie del 2000 e tutto cambia, anche le convenzioni più radicate, le tradizioni più antiche. Ecco, lo confesso, non me ne vergogno, ho una compagna, che oltretutto è giovanissima, il che non guasta di certo” – e qui l’ingegner Doppini fece un ampio sorriso, ammiccando contemporaneamente in modo vistoso e perfino un poco volgare – “e come le dicevo questa mia giovane compagna mi ha dato in regalo un bellissimo figlioletto, non cercato, certo, ma ciò che Dio dà, noi dobbiamo accettare con gioia, come vera benedizione dell’amore. Il ritrovarli, dopo qualche settimana di assenza, mi ricompensa di tutte le tristezze della lontananza e mi aiuta a superare le fatiche del lavoro”.
Anche su quest’argomento il giovane compagno di viaggio dell’ingegner Doppini non sapeva cosa rispondere, perché, pur essendo anche lui prossimo alle soglie del 2000 e di ampie vedute, la sua compagna era molto banalmente anche sua moglie, sposata con tutti i sacri crismi con bolli e controbolli e in chiesa e con gli invitati e con il pranzo di nozze e con la luna di miele a Venezia. “Certo, la lontananza dalla famiglia pesa anche a me” – replicò il giovane ingegnere decidendo di dire anche lui qualcosa di triste che potesse rallegrare il collega cuor di zucchero – “anche se, come le ho detto, le mie assenze sono sporadiche e molto brevi”.
L’hostess passò a ritirare le tazzine e l’ingegner Doppini, sollevato il tavolinetto, riprese a leggere le sue carte molto concentrato e non disse più nulla. Per quel giorno evidentemente le confessioni erano terminate e per tutto il resto del viaggio si disinteressò totalmente del suo compagno di viaggio. L’ingegner Rimoldi si chiese se era stato proprio lui, solo pochi minuti prima, a confessargli così apertamente gioie e dolori. Pensò che forse era stato scambiato per un accessorio del coffee break offerto dall’ALITALIA ed ora, esaurita la sua funzione di diversivo durante la pausa, non serviva più.
Dopo poco apparvero le luci di Milano e l’aereo atterrò leggero come una piuma senza particolari scossoni, tra gli applausi liberatori rivolti al pilota da un gruppetto di passeggeri. Prima di sbarcare l’ingegner Doppini strinse la mano sbrigativamente al suo vicino e lo salutò con un frettoloso arrivederci; sceso a terra si allontanò in fretta verso il nastro trasportatore dei bagagli. Gli occhi gli luccicavano contenti in modo evidente, certo al pensiero dell’imminente ricongiungimento con la sua famiglia, pensò l’ingegner Rimoldi, ricordando la confessione appena ricevuta. Al cancelletto d’uscita il giovane ingegnere iniziò ad aspettare facendo due passi su e giù, perché sua moglie non era ancora arrivata per prenderlo, forse attanagliata nel traffico dei taxi attorno a Linate o forse perché partita tardi da casa, stimando l’usuale ritardo dell’aereo, o forse ancora semplicemente perché s’era dimenticata del suo arrivo e l’aveva abbandonato al suo destino. Iniziò a pensare che questa superficialità, se non vero e proprio disinteresse, poteva essere frutto dell’obbligatorietà del loro legame, che triturava ogni slancio impastandolo poi in abitudine, quasi fosse un lavoro a cui ci si deve dedicare per dovere timbrando tutti i giorni il cartellino, oltretutto senza potersi mai prendere un giorno di ferie: ma poi scacciò le subdole parole che l’ingegner Doppini gli aveva insinuato durante il volo, facendogli fare meditazioni assurde, dovute certo alla stanchezza del viaggio.
Ma non era così per il suo compagno di volo, perché l’ingegner Rimoldi, mentre era lì che ballonzolava guardandosi in giro, rimuginando tra sé e sé sui diversi gradi della qualità dell’amore a seconda dei legami più o meno legali, più o meno codificati da carte da bollo e giuramenti, vide uscire l’ingegner Doppini e lo scorse dirigersi, quasi correndo e festante, verso una giovane ragazza, che avrà avuto forse vent’anni: graziosa e minuta, reggeva in braccio un piccolo bambino. La giovane si sbracciava verso di lui, chiamando a gran voce: “Seby, Seby!” L’ingegner Sebastiano Doppini, vistala, depositò le valigie per terra e, sprizzando gioia da ogni poro, strinse la ragazza e insieme a lei il bambino con un unico forte abbraccio. Il giovane ingegnere, non senza provare un vago senso di colpa e di rimorso per il poco peso che aveva dato alle parole del suo collega, e sentendosi in difetto per il fatto di essere ancora solo, nonostante fosse legalmente sposato, si rese conto, vedendo quella scenetta, che cosa aveva inteso dire il suo compagno di viaggio, parlando della lontananza dalla famiglia e dei legami affettivi che sembrerebbero ancora più forti se non vincolati da atti bollati o simili pandette.
Fortunatamente, a interrompere i suoi pensieri, che si stavano un poco avvitando su se stessi, arrivò infine anche sua moglie, che dunque non si era dimenticata di lui, nonostante l’obbligatorietà del loro rapporto, e se ne andarono a casa.
Recuperati finalmente le sue due valigie, l’ingegner Doppini si era avviato verso l’uscita e, accanto ai cancelletti, aveva visto, come ogni volta che rientrava a Milano dal suo viaggio catanese, qualunque fosse l’orario del suo arrivo, radiosa e sorridente, la sua compagna Daria con in braccio il loro figlioletto di un anno. Daria agitò festosa il braccio e, presa la manina del figlio nella sua, l’agitò con allegria. Camminando così stretti l’uno all’altra, s’avviarono all’uscita dell’aeroporto, scambiandosi parole miste a veloci baci, e raggiunsero l’automobile, in quanto ora li aspettava una buon’ora di viaggio lungo la stretta e trafficata provinciale prima di giungere a Lodi, cittadona a pochi chilometri da San Donato Milanese ove aveva sede l’AGIP, e dove avevano la loro casetta, vero nido d’amore.
Liborio Rinaldi