L’ULTIMO BACIO

L’ULTIMO BACIO

L’ULTIMO BACIO

 

“Ci dobbiamo lasciare” – disse Luisa a Carlo, e poi si zittì. Anche quei passerotti che s’erano radunati sui rami delle vicine piante per osservarli spettegolando allegri, zittirono all’improvviso. Anche le onde del lago Maggiore sembrarono meno rumorose nell’andare a morire sulla spiaggetta. Tutto all’improvviso fu gelo attorno a loro. 

 

Chissà se esiste un posto adatto per poter dire la frase che Luisa disse in quella calda giornata d’agosto, sdraiata sulla spiaggetta tra Intra e Ghiffa ove in quegli anni si trovavano gli studenti a fare il bagno usando come trampolino un grande masso sulla riva e che proprio per questo la località era nota come “il sasso degli studenti”.

La giornata era assolata, Carlo era sdraiato accanto a lei, abbandonati nel corpo e nei pensieri su una sabbia punteggiata di rotondi ciottoli che anche se non riusciva ad inghiottirli, come forse loro avrebbero desiderato, però per lo meno s’adattava perfettamente ai loro corpi, modellandosi accondiscendente su ogni loro pur minima rotondità.

 

Chissà se il posto più adatto per dire quella frase dal sapore devastante – dobbiamo lasciarci – non potesse essere per caso un anonimo parcheggio di periferia, specie d’autunno, quando la notte, tanto cara agli amanti, cala all’improvviso sulla città creando ovunque anfratti e recessi che li celano agli occhi indiscreti dei soliti invidiosi. Il buio dona alle coppie quell’intimità di cui sono sempre freneticamente alla ricerca, perché l’oscurità agevola le confessioni e magari spinge a prendere le decisioni rinviate all’infinito un giorno dopo l’altro. Ecco, quello forse sarebbe stato un posto più adatto per dire quella frase e non invece per darsi mille baci, e poi cento e poi ancora mille, confondendoli, così gli invidiosi non avrebbero saputo quanti sarebbero stati, bellissime parole che quell’anno Adriano Celentano aveva rubato a Catullo e messe in musica e che subito Carlo e Luisa avevano fatto loro. Quando Luisa a scuola aveva letto quelle parole cadenzando la metrica ed illustrandone il significato agli studenti, mai avrebbe immaginato che quei versi si sarebbero concretizzati con Carlo, uno dei suoi allievi migliori.

 

Avrebbero potuto quelle poche parole – dobbiamo lasciarci – essere dette un poco a tradimento, stando gli innamorati abbracciati stretti nell’abitacolo di una vettura, con i finestrini appannati dai primi freddi dell’autunno, parcheggiando nell’angolo più lontano e deserto: vengono facili allora da dire, agevolati dal fatto che non è possibile parlarsi guardandosi negli occhi. Nell’oscurità quindi il dirle non viene poi così difficile, parole buttate lì quasi per caso, parole senza rimorsi, parole dimentiche di promesse, parole assassine di speranze, parole grondanti realtà. Parole dette magari mordendosi subito dopo le labbra e pentendosi d’averle dette, ma ormai non possono più essere dimenticate, parole scolpite nei loro cuori, improvvisamente duri come pietre.

 

Oppure forse certe frasi così definitive andrebbero dette in una camera d’albergo, quando al mattino la luce del sole inizia a filtrare dalle imposte mal chiuse e i due innamorati piano piano aprono gli occhi, un poco sorpresi nel trovarsi uno accanto all’altro, situazione inusuale e straordinaria, tante volte sognata al punto da non credere che essa sia la realtà e non un vano vagheggiamento, essendo così poche le occasioni che hanno per trascorrere una notte d’amore e poi addormentarsi esausti ma mai sazi uno accanto all’altro, abbracciati stretti e quindi, ancora con la mente un poco intorpidita dal lento ritorno alla realtà, quelle parole potrebbero suonare meno devastanti, non riuscendo i due innamorati a coglierne subito il significato distruttivo di sogni e di speranze.

 

No, forse un bar, ecco, forse un bar potrebbe essere un posto più adatto per dire quella frase – dobbiamo lasciarci -, un piccolo bar di periferia con un tavolinetto un poco defilato. Lui le cerca la mano per stringerla forte a sé e lei lo lascia fare senza nemmeno accorgersi del gesto, tanto lo ritiene normale e anzi desiderabile, salvo poi scorgere lo sguardo tra lo stupito e l’invidioso di una coppia di un tavolo vicino, che vorrebbe un poco lasciarsi andare imitandoli, ma non osa. Come se fosse stata colta in fallo a fare chissà che cosa, lei ritrae la sua mano un poco imbarazzata e quasi vergognosa, lasciando lui smarrito e perso, navicella alla quale all’improvviso hanno tagliato l’ancora alla quale s’era ormeggiata per sottrarsi alla furia dei venti, pensando d’aver trovato finalmente un porto sicuro nel quale aver trovato riparo, ma per troppo poco tempo, dopo una lunga traversata tra tanti flutti tempestosi. Sicuramente un bar sarebbe perfetto per quell’occasione, perché in quel luogo pubblico, nell’udire quelle parole, sarebbe stato anche d’obbligo controllare le reazioni, trattenere le lacrime, essere distaccati come se fosse stato semplicemente detto che oggi piove o c’è il sole e non che Michele, l’arcangelo della resurrezione, avesse proclamato con uno squillo di tromba e voce tonante che era finalmente giunto il tempo della fine di un amore impossibile e con esso la fine del loro mondo.

 

Tra tanti possibili luoghi certo più adatti a quella situazione, chissà perché invece Luisa aveva scelto quel posto in cui stavano assaporando un momento di felicità e di abbandono perfetto, ma forse non aveva scelto lei né il momento, né il luogo, forse la sua mente aveva fatto finalmente forza sui suoi sentimenti contro la sua stessa volontà e le aveva fatto dire quelle poche parole.

Ma Carlo non diede segno alcuno d’aver sentito o quanto meno d’aver afferrato a pieno ciò che Luisa aveva detto.

 

Carlo parlava ad alta voce quasi con se stesso, del tutto estraniato dal mondo che lo circondava, giocando con i piedi di Luisa, intrecciandole scherzoso le dita di uno con quelle dell’altro; divertiva molto Luisa questo modo gioioso e un poco infantile di Carlo di giocare non tanto con lei, quanto con le parti più disparate del suo corpo, intrecciando con loro dei veri e propri colloqui, dai quali lei inizialmente veniva emarginata, inventando delle storie che più strampalate non avrebbero potuto essere, coinvolgendo alla fine Luisa stessa in una grande risata. Era anche questo il loro modo gioioso di fare all’amore.

Carlo era sdraiato prono, accanto a lei; si toccavano leggermente, quasi solo sfiorandosi, i fianchi dei loro corpi, le braccia allungate, la mano nella mano, perché anche Luisa era sdraiata prona, sotto un sole che li trapassava senza requie fin nell’intimo, sciogliendo prima e amalgamando poi in un tutt’uno indecifrabile sentimenti e pensieri e sensazioni.

Lui ogni tanto appoggiava la mano di Luisa sulla sabbia, liberando così la sua, afferrava un pugno di sabbia che distribuiva sulla schiena abbronzata di lei, poco per volta, cercando di coprirla in modo uniforme, come una leggera pioggia primaverile di granelli d’amore.

“Bingo bongo, non sapere d’amare una mulatta” – diceva Carlo con la voce da film tipo via col vento. E poi continuava: “ma ora ti fare ritornare donna bianca” per avere la scusa di liberarla dalla sabbia con sapienti carezze, lentamente, come ben sapeva fare. E poi le riprendeva la mano, ma poiché quella schiena reclamava ancora una carezza, con tutta la forza che può avere solo un desiderio non espresso, ma intuito, allora lui riprendeva un pugno di sabbia e  tornava a distribuire granelli ovunque, per non fare torto a nessun centimetro della pelle di Luisa. E intanto parlava con la schiena di lei sempre più sottovoce, fino a bisbigliare, perché Luisa non decifrava compiutamente le parole che Carlo pronunciava, non erano nemmeno parole vere e proprie, erano sussurri, mormorii, erano musica che si confondeva con il rumore ritmico delle onde; poiché s’erano sdraiati molto vicino alla battigia, ogni tanto un’onda riusciva perfino a raggiungerli, bagnava i piedi di Luisa, vi posava sopra un bacio frettoloso e poi si ritraeva subito un poco vergognosa, avanti e indietro, avanti e indietro, come le sensazioni che entravano in Luisa quando Carlo, con naturalezza, dirigeva le sue carezze ove anche Luisa desiderava.

 

“Ci dobbiamo lasciare” – ripeté lei a Carlo che sembrava incurante delle sue parole, come se nemmeno le avesse sentite, anche perché lei le aveva ripetute forse con un tono di voce ancora più basso e meno convinto di quello che aveva usato la prima volta, senza nessun desiderio di interromperlo nel suo impegno meticoloso, quasi pignolo, tanto era grande ormai la voglia di stordirsi che le carezze di Carlo avevano fatto entrare in lei. Luisa si girò, si mise supina, lo guardò per un attimo invitante e poi chiuse gli occhi, sulle labbra un sorriso di piacere e di dolore, di disperazione.

 

“Ci dobbiamo lasciare, ma non adesso, ti prego, domani” – bisbigliò Luisa, il petto, baciato dal sole, che ansimava leggermente, il rumore della risacca nelle orecchie, sempre più forte, quelle onde che entravano in lei su e giù. Prese nella sua la mano di Carlo affinché non si smarrisse, affinché non indugiasse, e la guidò verso il caldo bruciante del sole che ora divampava dentro di lei.

“Vieni” – disse Luisa a Carlo – “dammi un ultimo bacio. Ben sai che la nostra storia è senza sbocchi, lo sapevamo tutti e due fin dall’inizio ed ora è finita. Dammi ancora un ultimo bacio”.

 

Così Carlo le disse: “M’hai chiesto un ultimo bacio. Ho dunque un solo ultimo bacio da darti.

Lo poserò sulle tue palpebre, che oscuri la luce dei tuoi occhi perché non mi abbagli più.

No, lo poserò sulle tue labbra schiuse cercando la tua freccia rossa fuoco umido d’amore.

No, meglio nutrirmi ancora dei tuoi capezzoli turgidi e desiderosi di me,

persi su bianche colline che le mie mani non si stancano d’esplorare.

Ma no, no, scenderò d’un balzo senza distrazioni e bacerò ancora e ancora i tuoi piedi,

sentendo le tue dita giocare allegre con le mie labbra

come il vento con le spighe dorate di grano e frustate dentro di me.

No, ho deciso, salirò lentamente cercando sentieri sempre nuovi,

sostando ad ogni piega delle tue gambe, come chi non ha fretta di giungere alla meta.

Fiore di campo appena sbocciato, stella all’alba che brilla luminosa e solitaria,

non so scegliere.

Penso che l’ultimo bacio non te lo darò, ma lo terrò per me.

Nel cuore.

 

Liborio Rinaldi

 

  1. GIUSEPPE LIBORIO RINALDI 5 Agosto 2024, 11:44

    Cosa dire? Liborio è mio fratello, le sue narrazioni sono sempre dovute a una vena artistica che ci ha tramandato il nostro grande Nonno, il pittore Giuseppe Rinaldi.
    Sarebbe bello se tutti i racconti venissero raggruppati in un’unica pubblicazione così da poterli leggere senza dimenticarne nessuno.
    E’ un’idea? Forse si.
    Cordiali saluti al Direttore e a tutta la Redazione.

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