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MICROSTORIA D’UNA PAZZIA

MICROSTORIA D’UNA PAZZIA

Microstoria d’una pazzia

Alta era la luna nel cielo 
tu piangevi 
il tuo capo sulla mia spalla 
io ti stringevo senza fine, 
invano.

Mangiare in ristoranti diversi per non farci vedere insieme nella pausa del lavoro, divenire fantasmi, ombre inesistenti per un mondo che non doveva spiarci. Nasconderci, sorprendere noi stessi nel rubare minuti, mani, sguardi.

Amanti disperati di un amore impossibile, eppure vero, intenso, quasi violento. Come solo gli amori senza domani sanno essere.

Scambi frenetici di messaggi: “dove mangi oggi?” non per incontrarci, ma per evitarci, uccidendo la voglia per farla sopravvivere ancora un giorno, un’ora, un istante.

Ma oggi… oggi qualcosa è diverso. Ieri sera ci separammo col mio pianto sulla tua spalla, la luna alta a gridarci invano di restare. Nessun messaggio del mattino, solo un laconico “ciao, baci”. Silenzio colmo d’attesa. Tremante, intuisco: sta venendo da me. Prego di sbagliarmi. No, prego che sia vero.

Lo so. Lo sento. Sono terrorizzata. Sono felice.

Lo vedo arrivare: la sua macchina, la nostra nicchia d’amore ambulante. Tutto sta accadendo, e io resto seduta. Non mi importa più della gente, lo voglio. Ma lo vedo entrare con una donna, poi si avvicina. È lei. Sua moglie. Panico. Sorrisi svaniti. Cuore rovesciato.

Eppure lui viene da me. Mi saluta. Le mani si sfiorano, si attardano, si cercano. Troppo breve. Troppo lunga. Quella stretta è l’eco di tutte le nostre notti.

Poi, lentamente, me ne vado. E mentre lo sguardo di lui mi brucia la pelle, capisco che è pazzo. Pazzo di me. Ed è per questo che lo amo.

È passato un anno.

E quel giorno è rimasto inciso nella memoria, come tanti altri, come l’ultimo.

Ricordo ancora il rumore della portiera dell’auto, chiusa con delicatezza, eppure assordante. Rumore d’un amore che s’infrangeva nel buio. No, non finiva. Era la felicità che si scontrava con la realtà. Una realtà rimandata troppo a lungo, che ora tornava, feroce e affamata, a reclamare ciò che era suo.

Le nostre labbra si erano appena sfiorate. Mi allontanai. Lui mi guardava. Dio, come mi guardava… la mia immagine impressa in lui come una ferita incisa nel granito. Osservava smarrito il mio cappotto rosso, le spalle curve, i passi lenti. E poi il buio. Solo buio.

Voleva corrermi dietro, fermarmi, trattenermi. Ma non lo fece. Era stanco, esausto. Un soldato dopo l’ultima battaglia, incapace di reagire. Guardò ancora, ma non vide più nulla. Il portone s’era chiuso, barriera invalicabile tra di noi. Solo notte.

Avviò l’auto. Io avevo già chiuso ogni cosa: la porta, le finestre, il cuore.

E mentre lui avanzava nella notte, scopriva dentro sé il vero vuoto: non la tristezza, non il dolore, ma l’assenza. Una pelle vuota del mio corpo, una bocca vuota dei miei baci, mani senza carezze, pensieri senza parole.

Un vuoto che nulla potrà colmare. Perché l’amore vero, quello che vince tutto, resta. Non ha passato, non ha futuro. Solo un eterno, irripetibile presente.

E quando quel presente si spegne, resta solo il rumore di una portiera che si chiude nella notte.

Liborio Rinaldi

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