UN BEL RAGAZZONE

UN BEL RAGAZZONE

“Un bel ragazzone” è il titolo della nuova puntata della rubrica “IL PORTO VECCHIO ove ormeggiano i ricordi e le fantasie in libertà di Liborio Rinaldi” che i lettori trovano da oggi nella rubrica del nostro quotidiano.   Ancora una volta il nostro collaboratore rievoca ricordi di gioventù collegati a luoghi, persone, vicende; nel caso specifico la memoria di un episodio accaduto nell’immediato dopoguera nel pieno centro di Intra, sintomatico dell’atmosfera di quel periodo. 

 

Un bel ragazzone

Non avevo ancora un anno quando corsi probabilmente il rischio più grande della mia vita: anzi, rischiai di perdere la vita stessa.

Nei tragici anni finali dell’ultima guerra, la casa nella quale abitavo era a dir poco piuttosto movimentata. Infatti abitavo nel palazzo Franzosini di piazza Teatro, che era diventato la sede dei militi fascisti della decima MAS, mentre l’ampia biblioteca, che si trovava al primo piano del caseggiato (noi abitavamo al piano superiore) fungeva da sempre affollato ospedale da campo con un comando tedesco. Il via vai era notevole e certo non c’era da annoiarsi.

Io avevo solo pochi mesi ed ero certo troppo piccolo per avere un ricordo diretto di questi avvenimenti: ma, ciò nonostante, ne ho un’immagine nitida e viva, forse per il continuo racconto, che, nel corso degli anni, me ne fece la mia nonna materna, che, vedova da sempre, passò con noi tutta la sua lunga vita. Ed è così che spesso accade che il ricordo degli altri diviene la nostra realtà.

Ad Intra, mia città natale dove si svolsero i fatti che mi accingo a raccontare, fiorivano moltissime industrie, anche di meccanica pesante; verso la fine della guerra furono tutte requisite dai tedeschi, che però non si esimevano dal fare di tanto in tanto, per i più svariati motivi, delle retate, rastrellando a caso le persone che vi lavoravano. Mio padre era impiegato in una di queste fabbriche: progettava torni e trapani, che poi finivano probabilmente in Germania.

Una delle infermiere italiane dell’ospedaletto, Gianna ricordo che si chiamava, era una donna sui trent’anni: minuta, molto graziosa, un sorriso sempre sulle labbra, occhi vivaci, capelli colore stoppa. Gianna era l’amante conclamata del capitano tedesco che comandava tutto quel pasticcio d’armata che si diceva prima. Per la verità era anche noto che il marito della Gianna era un partigiano, probabilmente arroccato sul Pian Cavallone. In questo gioco dei quattro cantoni Gianna si trovava al centro di fatti molto più grandi di lei, dovendosi destreggiare da un letto ad un altro, in quanto ogni tanto, più o meno di nascosto, il marito scendeva di notte dai monti e, con la scusa di controllare la situazione e raccogliere informazioni, già che c’era assolveva al proprio dovere coniugale. Erano tempi duri ed il sopravvivere era certo più difficile che il morire.

Le retate venivano organizzate e discusse dagli ufficiali tedeschi e il capitano spesso chiamava la Gianna per portare tazze fumanti di caffè, che così afferrava il senso dei discorsi e mandava a memoria date e località, divulgandole poi a chi di dovere e salvando non poche vite umane.

Fu così che un giorno venne a conoscenza che era stato deciso di effettuare una retata proprio nella fabbrica dove lavorava mio padre, per vendicare non so quale azione partigiana. La buona donna venne al piano di sopra ad avvertire del grave pericolo incombente mia madre, tanto per metterla un poco in agitazione, e quindi, per vicoli e vicoletti, raggiunse la fabbrica in questione per dare l’allarme. Tutti, e con loro mio padre, abbandonarono subito il lavoro: inforcarono le biciclette e si diressero silenziosi e veloci verso le proprie case, per strade poco battute.

Mia madre, da quando era stata messa sul chi vive, stava ovviamente sulle spine, non potendo  affacciarsi alla finestra, perché spesso i tedeschi si innervosivano e sparavano dei colpi un poco a casaccio verso le finestre dei curiosi. Ogni tanto mia madre, con me in braccio, origliava alla porta d’ingresso, per sentire se mio padre non arrivasse mai. Ed ecco, infatti, giungere dalle scale un rumore di passi: mia madre apre l’uscio, si affaccia… ma, invece di mio padre, scorge un soldato tedesco.

In un attimo mia madre richiuse l’uscio, ma il tedesco fu ancora più veloce di lei: con un solo balzo fu davanti alla porta, non ancora completamente chiusa, e con una violenta spallata la spalancò, quindi schiacciò mia madre contro la parete del corridoio e, appoggiando con forza la canna del mitra contro il mio petto, collerico iniziò a gridare “vergogna… vergogna… cosa fare… chiudere porta in faccia… spiare…” o qualcosa del genere. Dico qualcosa del genere, perché è fin troppo chiaro che in certi momenti è difficile prendere appunti per tramandare ai posteri le frasi celebri.

Mia madre balbettava, stringendomi a sé, non potendo certo spiegare il motivo per cui s’era affacciata alla porta; di fronte a questo atteggiamento reticente, il tedesco affondava sempre più nervoso la canna del mitra nel mio petto, facendomi male: mi misi a strillare, mia madre piangeva, il soldato urlava, la situazione stava degenerando rapidamente, ad un passo dalla tragedia.

Forse oggi non sarei qui, se all’improvviso la mia nonna materna, richiamata dalle urla e resasi conto in un attimo della situazione, non si fosse precipitata contro lo sbalordito soldatone gridando più di tutti quanti messi insieme e presentandosi quale sorella di un capitano e zia di due tenenti, il che peraltro era poi anche vero, tranne il particolare insignificante, ovviamente omesso, che il capitano combatteva sui monti con i partigiani e che i due tenenti, trovandosi l’otto di settembre a Cefalonia, erano stati fatti prigionieri, perché s’erano rifiutati di collaborare con i tedeschi. Ma tant’è: a sentire citare così tanti ufficiali, l’ira del soldato sbollì ed il suo fare si fece un poco preoccupato ed incerto; abbassò il mitra, la cui canna mi lasciò un gran livido sul petto per un bel pezzo, e disse, in un incerto italiano, che stava cercando un materasso per dei nuovi camerati feriti. Subito il materasso fu trovato e dato, con l’aggiunta di coperte e lenzuola; così affardellato, borbottando chissà che cosa, il soldato batté in ritirata. Il campo era stato appena sgombrato dal nemico, che giunse mio padre. Io passai nelle braccia di mia nonna, i miei genitori si abbracciarono piangendo per lo scampato pericolo, ma ecco che, a finire la giornata in gloria, alcuni aerei alleati, di ritorno dall’avere ancora una volta bombardato Milano, sganciarono qua e là qualche bombetta come simpatico ricordo.

Ma anche quella giornata finì e con essa finì la mia guerra; da lì a non molto poi la guerra sarebbe finita per tutti. Il marito della Gianna invece non riuscì a vedere la fine della guerra, ucciso in uno dei tanti scontri a fuoco tra tedeschi e partigiani.

Gli anni passarono e la Gianna spesso si recava al cimitero, a vagare qua e là, non avendo una tomba dove posare un fiore. D’estate la si vedeva anche spesso seduta su una panchina del lungo lago guardare con lo sguardo assente i fiumi di turisti tedeschi che sbarcavano dai battelli, come se stesse aspettando qualcuno. I capelli colore stoppa erano un poco più chiari, ora, e sul sorriso, ancora presente, era scesa un’ombra di stanchezza.

La nostra famiglia restò sempre in contatto, per ovvi motivi di riconoscenza, ma anche di simpatia, con la Gianna, che talvolta la sera veniva a trovarci per scambiare due chiacchiere e prendere un caffè. Si parlava un poco di tutto, ma mai delle passate vicende belliche.

Una sera d’inverno, questo lo ricordo bene perché avevo già una quindicina d’anni, mentre la conversazione, dopo aver vagato stanca da un argomento all’altro, stava già per spegnersi, la Gianna, senza motivo alcuno, riandò all’improvviso agli avvenimenti dei terribili anni della guerra e così si mise a raccontare tutto d’un fiato, come per sgravarsi da un pesante fardello:

“Il capitano dei tedeschi era una brava persona, da civile dirigeva un ufficio postale ed era un ufficiale con un grande senso del dovere e dell’onore.  Io amavo mio marito, ma mi misi con il capitano per raccogliere informazioni; dopo poco però m’innamorai anche di lui e anche lui, che amava sua moglie che lo attendeva con i figli in Baviera, s’innamorò di me. Karl, così si chiamava il capitano, era un bell’uomo: alto, biondo, con gli occhi azzurri, camminava sempre con passo deciso; detestava le vendette e non condivideva i rastrellamenti, perciò quando dal comando di Novara giungevano quegli ordini spietati di rappresaglie, egli faceva in modo che io fossi presente quando prendevano quel tipo di decisioni, ben sapendo che poi le avrei divulgate; così, senza venire meno al suo dovere di soldato, riusciva anche a rispettare il suo senso dell’onore. Ma presto, con l’incattivirsi della guerra, tutti gli ufficiali dell’esercito furono sostituiti da uomini delle SS che intuirono qualcosa ed il capitano fu mandato in prima linea, a morire, come mi disse la notte prima di partire. La notte prima di partire…”

La Gianna si prese il viso fra le mani, scossa dai singhiozzi. Le lacrime le rigavano abbondanti il viso, tutti, commossi, stavamo in silenzio.

S’interruppe: non aveva più lacrime, non aveva più nulla da raccontare, non avrebbe mai più raccontato nulla a nessuno, in tutti gli anni che sarebbero seguiti.

Suonarono alla porta: era suo figlio che veniva a prenderla per ritornare a casa. Era un bel ragazzone, Carlo: alto, biondo, con gli occhi azzurri, camminava con passo deciso; la prese sottobraccio ed insieme se n’andarono. Non la vedemmo più, la Gianna.

Liborio Rinaldi

 

Lascia un commento

La tua email non sarà pubblicata.