Una Notte in tenda
L’Edo decise con il suo grande amico Mirko di andare un paio di giorni in montagna,
pernottando in tenda. Presi dall’entusiasmo della gita, i due ragazzi ventenni passarono
un’intera mattinata a preparare gli zaini e nelle prime ore del pomeriggio partirono con la
Vespa 125 dell’Edo verso il monte Zeda, quell’aspra montagna che conclude (o inizia: fine
ed inizio dipendono dai punti di vista) una delle tante valli alle spalle di Intra, la loro
cittadina natale.
Fin dove poterono, seguirono la strada asfaltata, indi una vecchia carrareccia militare. La
strada era a mezza costa, seguiva le infinite pieghe della montagna e sembrava non
dovesse finire mai. La Vespa arrancava un poco impacciata su quelle strade piuttosto mal
messe. Il sole tramontava e sorgeva continuamente mano a mano che i ragazzi
avanzavano penetrando sempre più profondamente nella valle. Il modesto rombo della
motoretta, rumore insolito per quei luoghi piuttosto deserti, rotolava giù per i valloni,
scendeva per i ripidi torrenti, si schiacciava sui sottostanti massi enormi.
Qualche capra osservava perplessa, ma senza mostrare paura, il loro incedere. Terminata
che fu la strada, proseguirono a piedi per ripidi sentieri. Il sole era ormai definitivamente
tramontato e loro erano in totale solitudine, abbandonati anche dalle loro ombre.
Dopo un paio d’ore di difficile cammino, aiutandosi con le torce elettriche, individuarono la
loro meta, raggiunta già altre volte in passato: un’esile radura, unica piccola oasi tra rocce
strapiombanti, ove allestirono il bivacco, piantando una piccola tenda che avevano portato
con loro. Intanto era scesa la notte e prepararono i giacigli; accesero il fuoco, mangiarono
molto e bevvero ancora di più, vociando sempre più allegramente e, per una volta,
spensierati. Erano soli, completamente soli, lontani da tutto e da tutti. Erano amici e si
volevano bene.
Iniziava a fare freddo, per via di una sottile gelida brezza che soffiava insistentemente; il
cielo s’era vestito a festa proprio per loro, punteggiandosi di stelle, che sembrava fosse
possibile toccare con la mano, tanto erano vicine. Portarono i sacchi a pelo fuori dalla
tenda e li distesero sul prato umido, infilandovisi quindi dentro.
Potevano scendere con lo sguardo giù nel buco nero della valle, risalire lungo l’opposta
montagna fino ai lontani bagliori di un paesino, unico segno di vita, e vagare oltre, fino ad
intravedere il chiarore diffuso delle luci della loro lontana città, invisibile ma presente.
“Cri-cri-cri-cri-cri” – era tutto ciò che si sentiva, e poi i respiri dei due ragazzi e ad ascoltare
bene magari si potevano anche percepire i loro pensieri.
Passò veloce, bruciandosi in un attimo, una stella cadente. Poi subito dopo una seconda,
con identica effimera durata.
“Ecco, guarda, quelle sono le nostre vite che se ne vanno” – disse il Mirko ad alta voce,
insolitamente filosofeggiando a basso prezzo. I grilli, al rumore della voce, zittirono d’un
colpo; ma dopo poco ripresero indifferenti il canto di sempre.
“E come hai sentito, dopo un attimo di compunto silenzio e di profondo dolore, il mondo se
n’è fregato e ha ripreso a correre come sempre” – ribatté l’Edo sconsolato.
“Se uno ha bisogno di un po’ d’incoraggiamento” – disse il Mirko all’Edo, ma con fare
scherzoso più che di rimprovero – “sa a chi rivolgersi!”
Il Mirko estrasse il braccio dal sacco a pelo, cercò la mano dell’Edo e gliela strinse forte,
fraternamente. Era in situazioni come queste che l’Edo ed il Mirko si sentivano molto
amici. Si volevano fraternamente bene. Quando avevano bisogno di questi momenti
d’intensa intimità, a volte, la sera, prima di rientrare nelle loro case e salutarsi, si
sdraiavano sugli antichi muretti a secco della periferia di Intra, al bordo dei campi che
ancora resistevano all’avanzare implacabile della città, e, nella notte fresca, si facevano
riscaldare le membra dal caldo che emanava ancora dalla pietra, cercando di aderire ad
essa con i loro corpi il più possibile.
E se ne stavano così a lungo, silenziosi, guardando semplicemente il cielo, irrorati fin nel
profondo dal benessere che provocava questo perdersi nel nulla. Osservavano il vuoto
cielo, forse vedendo in esso il vuoto della loro vita, che non sapevano ancora di che cosa
avrebbero potuto mai riempire. Una volta, avevano forse bevuto un bicchiere di troppo,
così sdraiati si erano addormentati profondamente ed erano stati svegliati la mattina dopo,
il sole era già alto, da due carabinieri che passavano di pattuglia lì vicino e li avevano
scambiati per morti, tanto erano pallidi ed immobili. Ricordarono ancora una volta
quell’episodio, che era entrato a buon diritto tra i capitoli dell’epopea della loro vita, da
citare periodicamente; risero a lungo e passarono direttamente, senza nemmeno
accorgersene, dalle risate sguaiate ed esagerate al sonno profondo.
Dopo non molto che si fu addormentato, l’Edo iniziò a sognare: il lago, una barca, lui
bambinetto, sulla barca la madre ed il padre… cercò di scacciare quel sogno, quell’incubo
che lo tormentava da sempre, ma ogni sforzo fu vano, non ci riuscì, venne avviluppato
dalla morsa dei ricordi e non poté fare a meno di cedere e di sprofondare in esso, come
sempre, da sempre…
“Papà, papà, fai ancora una volta il giro della barca!”
L’Edo, bimbetto di cinque anni, batteva le mani, incitando il padre al solito gioco. Genitori e
figlio erano giunti con la loro piccola imbarcazione a motore davanti ai castelli di Cannero,
meta estiva abituale.
L’Edo, ora completamente sveglio, rivedeva la madre sdraiata a prua a prendere il sole
ferragostano, sonnecchiando pigra su un colorato asciugamano, il bel corpo maturo
inguainato in un castigato costume da bagno bianco. Si riposava, la madre, mentre il
padre non riusciva a stare fermo un attimo. Ma anche l’Edo non riusciva a stare fermo un
attimo, si girava e rigirava in continuazione nel sacco a pelo.
Il padre si alzò sulla barca, che oscillò leggermente, diede una carezza all’Edo,
sorridendogli gli strizzò un occhio e gli disse: “Edino, la prossima volta lo facciamo
insieme. Hai capito Edino? Ci tuffiamo e facciamo il giro del mondo insieme!” Poi si lasciò
cadere nel lago nero, svanendo in esso. Gli alti spruzzi bagnarono la madre, che borbottò
qualcosa infastidita, senza nemmeno aprire gli occhi. L’Edo batté ancora una volta le mani
divertito, osservando l’acqua richiudersi dopo il tuffo del padre e tornare calma; quindi si
spostò, sporgendosi dall’altro bordo della barca verso il lago, in attesa che si completasse
il gioco di sempre. Dopo pochi istanti, non vedendo apparire il padre, tornò al primo bordo:
già un’altra volta il padre per gioco era riaffiorato dalla stessa parte in cui s’era tuffato e
l’aveva sorpreso spruzzandolo. Ma il padre non riaffiorava, da nessuna parte. L’Edo si
spostava da un bordo all’altro, la barca si mise ad oscillare pericolosamente e la madre,
stirandosi pigramente, iniziò a svegliarsi.
Quella volta il padre non fece il giro del mondo, non riuscì nemmeno molto più
modestamente a fare il giro del lago. Riaffiorò, come l’Edo seppe quando fu molto più
avanti negli anni, solo dopo tre giorni, quasi irriconoscibile, nei pressi di una spiaggetta di
Angera, con i piedi impigliati in una lunga pesante fune da ormeggio, che vagava chissà
come per le profondità del lago e che, bloccandolo ed appesantendolo, gli aveva impedito
di riaffiorare.
Quella volta il padre dunque non riapparve e l’Edo, dopo un poco, iniziò a piagnucolare, a
tirare la madre per un piede, chiamandola sempre più forte, per svegliarla del tutto; la
madre, come si rese conto della situazione, diede in un urlo ed anche l’Edo l’imitò e,
fissando la calma piatta dell’acqua che non restituiva più il padre, iniziò ad urlare, e l’Edo
urlò, svegliandosi completamente e sedendosi sudato ed affannato. Per quanti anni
ancora quell’incubo lo avrebbe perseguitato? Per quante e quante notti ancora avrebbe
dovuto desiderare di non dover andare a letto?
Il Mirko, svegliatosi di soprassalto alle grida dell’amico, lo guardò perplesso; poi, intuendo
cos’era successo, gli strinse un braccio con protettiva amicizia. Sapeva tutto il Mirko: era
l’unico a cui l’Edo non s’era vergognato di raccontare questa sua vecchia storia, questi
suoi incubi, tante e tante volte, senza però riuscire mai a liberarsene.
Quando il mattino dopo, ancora intorpiditi e insonnoliti, i due ragazzi misero la testa fuori
dalla tenda nella quale si erano rifugiati per ripararsi dalla brina notturna, videro tutta la
valle sotto di loro coperta di nuvole, fitte e soffici, ed il sole che sorgeva al di sopra di esse:
loro invece erano nella luce, nell’azzurro.
“Sembra di essere in aereo!” – disse il Mirko, che peraltro non aveva mai volato, con
stupore infantile.
“Pensa che fortuna: magari siamo gli unici esseri viventi restati al mondo: giù
un’esplosione nucleare ha distrutto tutto e stiamo vedendo la nube radioattiva, che copre
milioni di cadaveri”.
“Il problema è che noi due soli avremmo qualche piccolo problema tecnico a fare figli per
far ripartire l’umanità” – gli fece eco il Mirko sdrammatizzando, con una risata, la tragica
osservazione dell’Edo.
“E poi, a parte questo dettaglio, magari superabile con la tecnica moderna, visto i
progenitori forse il nuovo uomo non verrebbe nemmeno un gran ché bene”.
Risero entrambi alle proprie battute. Disfecero il bivacco e ritornarono veloci e silenziosi
verso valle, lasciandosi per una volta gli incubi alle spalle.
Questa era la gioventù degli anni del 1960, vite piene di nulla, piene di tutto.
Liborio Rinaldi