
Una notte sul lago di Garda
Terminata la doccia, indossò l’accappatoio. Dopo cena avevano passeggiato per più di un’ora sul lungo lago di Riva del Garda, l’aria era calda e lui aveva leggermente sudato. La sera di tarda primavera era diventata rapidamente notte: sorgeva la luna, luna di plenilunio; l’aria primaverile era divenuta frizzantina ed erano rientrati nell’hotel.
Uscì dal bagno ed entrò nella camera: era spaziosa quella camera d’hotel, ben arredata, con tendaggi allegri, giovanili: aveva fatto una buona scelta, ma poi sempre serviva un poco di fortuna perché talvolta le promesse elargite all’atto della prenotazione fatta on line non coincidevano con la realtà e capitava di trovarsi in camere più simili a quelle di un anonimo motel che certo non predisponevano a sentimenti di una spensierata vacanza.
La stanza era in penombra, illuminata solo dalla luce che entrava dalla porta-finestra del balconcino affacciato sul lago: camera-con-vista era stata una sua richiesta irrinunciabile. Lei era già sotto le coperte, il viso era quasi completamente nascosto, lui poteva vedere solo due occhi che scintillavano nel buio e che scrutavano passo passo i suoi movimenti. Immaginò d’essere un ghepardo che s’avvicina ad una gazzella impaurita in una savana africana e il paragone lo fece sorridere. Una folta chioma era sparsa sul cuscino, neri capelli cui una fata benevola aveva intrecciato i primi fili d’argento per renderli più intriganti: presto mani sapienti si sarebbero perse tra di loro, pensò ancora. Ma quanto immaginava, quanti film girava nella sua testa e quante volte la realtà però decideva di essere lei l’unico regista della sua vita, scompaginando tutta la sua sceneggiatura.
Comunque lui ricavò una sensazione di benessere rassicurante nell’osservare quel quadretto: lei era lì, finalmente prigioniera di una prigione dorata e non avrebbe potuto né in definitiva voluto scappare. Le si avvicinò sorridendo, ma poi lo sguardo fu distratto dalla luce che proveniva dal balconcino: come attratto da una forza magnetica deviò e si avvicinò ad esso. Due occhi continuavano a seguirlo, per decifrare i suoi movimenti. Lei ben sapeva che lui aveva atteso da tempo quel momento, quanto ne avevano parlato prima di prendere la decisione di passare una notte insieme, ma ora lui sembrava all’improvviso essere stato distratto da altro.
Infatti si accostò al balconcino, tirò aprendolo completamente il pesante tendaggio che impediva alla luce di invadere la camera e la luce bianca di una luna piena che più piena di così non avrebbe potuto essere lo colpì quasi a tradimento. La luna splendeva alta nel cielo, la sua luce scendeva fin sulle acque del lago, cascata dorata, si spezzava giocando con le onde provocate dalla leggera brezza serale in mille riflessi che dondolavano lievi, quasi invitanti, come barchette che oscillano indolenti paghe di farsi accarezzare da qualche ninfa del lago. Lui si sentì un poco smarrito osservando con stupore, come fosse la prima volta che vedeva una luna e un lago e come si abbracciassero come amanti felici e senza tempo, ma forse era la presenza di lei che sentiva così vicino, a rendere tutto così straordinario e nuovo.
Provò il desiderio di entrare in quel quadro che certo era stato dipinto per lui da un pittore benevolo. Aprì la porta finestra e uscì sul balconcino, sempre inseguito da quei due occhi che scrutavano sempre più interrogativi tutti i suoi movimenti.
Come uscì, fu invaso dal profumo della primavera dei mille fiori del lago che inarrestabili sbocciavano, la natura non si fa mai attendere, e fu colto da un profumo fortissimo spinto dalla brezza che giungeva fino a lui salendo dalle acque alla collina dove si trovava l’hotel, posizione che permetteva di abbracciare tutto il lago con un solo sguardo. Si sedette sulla poltroncina del balconcino, stordito, ammaliato, silente. Tutto era pace, solo ogni tanto il rumore d’un’onda che veniva spinta dal vento un poco più forte e che proprio per questo mandava un riflesso di luce più intenso, un bagliore, un dardo. Freccia d’amore di qualche Cupido nascosto tra le onde?
Lui chiuse gli occhi, stordito come se stesse per svenire; dopo qualche minuto sentì una mano posarsi sulla sua spalla: la prese dolcemente e la nascose nella sua, senza voltarsi. “Che fai?” – gli chiese lei sottovoce, anch’ella colpita dalla luce, dal profumo. Lui non rispose, ma la tirò a sé. Lei indossava un pigiamino leggerissimo, s’era infilata così sotto le coperte in sua attesa, e il chiarore del suo corpo, illuminato dalla luce della luna, sembrò rischiarare il mondo intero di dolce e tranquilla bellezza.
Lui aperse l’accappatoio, la tirò a sé e la fece sedere sulle sue gambe, rivolta verso il lago, e chiuse su entrambi l’accappatoio: non è che scaldasse molto, ma sopperiva a ciò il calore dei loro corpi.
Lui l’abbracciò forte, lei gli prese le mani e le appoggiò entrambe sul suo seno, per sentirlo intimamente vicino, vicinissimo. Stettero a lungo in silenzio, immobili. Solo ogni tanto lei si scostava leggermente, ma solo per rinnovare il piacere del contatto dei loro corpi. Qualche brivido improvviso a tratti li faceva tremare: freddo? piacere?
Dopo lunghi minuti o forse solo pochi secondi, chissà, sembrava che il tempo si fosse fermato, lui affondò la sua bocca nei capelli di lei ed ora il profumo dei fiori si mescolava a quello di lei e non riusciva a distinguerli, a capire quale fosse il più intenso, il più piacevole. Forse lei aveva sempre profumato di fiori o i fiori di lei, chissà, forse lei stessa era un fiore sbocciato per un meraviglioso errore in questo mondo.
“A cosa pensi?” – gli chiese lei. “A nulla e a te al tempo stesso, non so spiegarmi, è come se stessi sprofondando in te senza pensare a niente”. “Guarda” – rispose lei – “sto provando anch’io la stessa sensazione. Guardo la luna, il lago, sento i profumi e la testa corre lontana ma al tempo stesso ti è vicina. Addirittura è dentro la tua e sento la tua dentro la mia”. “Ho letto una volta non ricordo dove” – disse lui, ma non era vero, stava inventando ma voleva darsi importanza – “che certi momenti della vita sono perfetti e irripetibili, capitano solo una volta e solo se si è fortunati e il loro ricordo resterà per sempre, ti seguirà per tutta la vita. Pensa che da bambino mi capitava di vivere momenti di grande felicità: dopo un abbraccio con mia nonna, dopo un bel voto a scuola, dopo un gioco divertente. Bene, immaginavo di avere un bottoncino, di premerlo e congelare così quel momento per sempre”. Lei sorrise, lui non poteva vederla in viso, ma era sicuro che aveva sorriso, lo sentiva dentro di sé quel sorriso. “Ecco, ora premo il bottoncino” – e così dicendo con un dito le premette leggermente un capezzolo, prezioso zaffiro su una dolce collina – “e fermo il tempo e staremo così per sempre”.
“Però sai” – lei disse, quasi contraddicendolo e confondendo l’immagine che lui aveva dipinto – “è bello anche se il tempo scorre e noi siamo qui e viviamo questo momento istante dopo istante, sempre eguale, sempre diverso”. “Chissà” – pensò lui – “forse aveva ragione lei, in definitiva come sempre”. Ma forse avevano ragione entrambi, se lo scorrere della vita è la somma di tanti momenti di immobilità.
“Entriamo” – le disse poi – “ti sento gelata”. “Sai” – continuò lei senza dare l’idea di volersi muovere – “siamo stati veramente come mai un corpo solo, una mente sola, una sola anima, immersi in un grande silenzio che gridava in me più di cento parole. Mai come in questo momento io sono stata tua e tu sei stato mio, siamo stati noi”. Si girò verso di lui, lo guardò come solo lei sapeva guardare, sorrise e lo baciò e si fece baciare, senza furia, con una dolcezza infinita che scivolò giù fino alle onde del lago, risalì lungo la luce della luna e si perse in essa, rischiarandola ancora di più.
Entrarono nella stanza, si abbracciarono con tenerezza sotto le coperte e così si fecero raggiungere dal sonno. Il momento vissuto era stato perfetto, null’altro avrebbero potuto aggiungere ad esso.
Liborio Rinaldi