DAS GRABEN AUF DER WALD

DAS GRABEN AUF DER WALD

Das Graben auf der Wald

Quando mi prende la nostalgia, ma sai, caro amico che mi leggi, non la nostalgia delle canzonette, ma quella grande così che ti chiude lo stomaco e non ti fa respirare e gli occhi all’improvviso si inumidiscono, ecco, in uno di quei giorni maledetti scappo, prendo il traghetto a Laveno e sbarco a Intra; magari, mentre lungo la traversata mi guardo tutt’attorno come fosse la prima volta (o forse l’ultima) che vedo tutta quella meraviglia che mi circonda, tra la perplessità mal celata dei miei occasionali compagni di traversata canticchio sottovoce dei versi non so di chi imparati da bambino: “I rivan i furesté in sül batéll, par l’emuziùn i rèstan incantà, i han mai vist un post che l’è in sì béll”.

Appena sbarcato a Intra, dopo un veloce doveroso saluto a quel che resta della mia piazza Teatro, in cui trascorsi le mie infanzia e gioventù, mi dirigo verso Premeno e lì giunto salgo al Pian di Sole ma lungo la vecchia militare Cadorna e sosto al Tornicco, percorrendo la strada ormai frequentata solo dagli ultimi inguaribili romantici che si ostinano a prendere l’acqua minerale alla vicina fonte Garibaldi, ove una volta sorgeva una frequentatissima trattoria. 

L’altro giorno, ripetendo questa mia personalissima viacrucis, posteggiai al piccolo spiazzo del Tornicco (una scritta d’antiquariato sulla roccia recita ancora: “Viva il re”) e mi sedetti su una delle panchine del belvedere; una coppietta, giunta fin lì evidentemente in cerca d’intimità, infastidita dalla mia tanto strana quanto inquietante presenza solitaria, ben presto tolse il disturbo e se ne andò: potetti così respirare a pieni polmoni a 180 gradi tutta la mia valle Intrasca, finalmente interamente per me, ancora una volta, forse l’ultima, chissà.

Da Caprezzo ad Aurano, passando per Intragna e Scareno, dal Pernice alla Zeda, uniti dal pian Cavallone, la valle era tutta ai miei piedi, anzi no, non oserei mai, era lei ad essere ben in piedi davanti a me, che m’inchinavo a lei umilmente, e potetti così abbracciarla forte, fino a far scricchiolare (non ci vuole peraltro più molto) le mie ossa: valle compagna, amica e amante ad un tempo. Non dirmi anche tu, lettore caro, che con l’età sono diventato una brodaglia di sentimentume, non dirmelo anche tu, perché se me lo dici anche tu devo iniziare a pensare che forse è vero e allora converrebbe tenere tutto questo ribollire di sentimenti ben chiuso in me, senza dare spettacolo oltretutto non richiesto e inadatto alla mia età.

Davanti a me, in una dettagliata carta geografica mentale, ripercorsi ancora una volta tutta la fitta ragnatela di sentieri, molti ormai scomparsi, che imparai a conoscere fin da bambino, portato mano nella mano da mio Padre, che tanto amò anch’egli questa valle. Ricordo che davanti alla bianca Cappelletta del pian Cavallone, che dal mio osservatorio scorgevo perfettamente, in una giornata primaverile di soffice nebbia, mio Padre, dopo avermi enumerato tutte le cime possibili vicine e remote, a me decenne disse all’improvviso, guardando lontano: “quando morirò, vorrei essere seppellito qui” e poi proseguì, parafrasando la scritta della lapide affissa sul fianco della Cappelletta: “così il vento della Zeda, che sa il mio nome, potrà baciare per sempre le mie bianche chiome”. 

Io mi sentii di colpo raggelare, mi scopersi solo e indifeso; mi strinsi a lui e gli dissi con impeto: “ma tu non morirai mai, promettimelo” ed egli sorrise triste, guardandomi con gli occhi lucidi. “Sarebbe bello, farò il possibile, ma non ti posso promettere niente” mi rispose stringendomi la mano così forte, che mi duole ancora oggi. “Das Graben auf den Wald” canticchiò poi allegramente, iniziando a scendere verso il rifugio sulla via del ritorno, intonando una canzoncina della tradizione popolare nordica, forse imparata dalla nonna svizzero-tedesca; quei versi mi sembrarono belli, allegri e mi rimasero in mente; li canticchiai per anni e solo alle scuole medie, studiando il tedesco, seppi che volevano dire: “la tomba nel bosco”. 

Quel giorno lontano l’aveva ben detto, mio Padre, che non poteva promettermi nulla ed infatti non mi aveva mentito, perché morì: per le strane vicende della vita se ne andò infatti, molti anni dopo, un 8 gennaio di splendido sole all’ultimo piano del reparto di rianimazione dell’ospedale di Varese: io, attraverso i finestroni del reparto, grazie ad un cielo azzurrissimo reso terso da un forte gelido vento, vedevo nitidamente al di là dal lago il rifugio del pian Cavallone, piccolo punto nero attorniato da un manto di bianca neve, e mi sembrava, ricordando le parole dette da mio Padre trent’anni prima, che il cerchio della vita si stesse ancora una volta chiudendo, tornando al punto di partenza. Tout se tient.

Erano passati in un attimo quei trent’anni che mi separavano da quel giorno sul pian Cavallone,  erano passati veloci come un soffio di Föhn, erano passati silenziosi come un ladro; trent’anni erano passati  da quando mio Padre aveva espresso quel desiderio (“das Graben auf der Wald”), ma io non potetti seppellirlo dove avrebbe voluto, in quel crinale rosso di rododendri battuto incessantemente dal vento della Zeda, come dice la lapide affissa sulla parete della cappelletta che rileggo commosso ogni volta che là torno, anche se la recito con le parole di mio Padre: “Vento della Zeda, tu che sai il suo nome, bacialo ancora sulle bianche chiome”. Ovunque Egli possa essere, tu certo lo sai trovare, vento amico, non abbandoni un figlio che ti ha tanto amato: bacialo, bacialo ancora una volta.

Non intristirti, ti prego, amico che mi leggi, sono già abbastanza triste io. Quante ore, giorni, mesi, ho mai trascorso in questa Vallintrasca, salendo e scendendo per sentieri e mulattiere, esplorando le strette vie acciottolate di tutti i suoi deserti numerosi paesi, una volta così popolati! Ma ogni volta che, anno dopo anno, ripercorro uno stesso itinerario, dopo essermi riposato, ho l’impressione che la fatica sia ben superiore a quella provata l’anno precedente: eppure le montagne non sono aumentate di altezza e i sentieri, anzi, si sono accorciati, per via delle strade asfaltate portate sempre più in alto: non sono più i tempi che per andare in Zeda si partiva da Intra, e poi da Miazzina, e poi sempre più su da Pala, Colletta, cappella Fina e magari tra qualche anno direttamente dal Cavallone, magari con una bella funivia: ma fortunatamente in quel sciagurato dì non vedrò la costa rossa di rododendri trasformata in parcheggio, non vedrò sostare davanti alla bianca Cappelletta, violandola con schiamazzi sguaiati, turisti con ciabatte e telefonini. Chissà se ci sarà ancora quella lapide, ma il vento della Zeda sì, lui sì che ci sarà ancora a urlare le parole di mio Padre: “das Graben auf der Wald”. Vento della Zeda, tu che sai il suo nome, l’avrai certo trovato e adagiato per sempre tra i rossi rododendri.

Liborio Rinaldi, 8 gennaio 2024, nel 40° della morte di suo Padre Luigi

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