FANTASMI DI LAGO
1 – Il Tesoro perduto
Uscendo di casa, si dimenticò perfino di chiudere il portone del garage, l’Edo. Si sentiva stanco, molto stanco dopo un’altra notte di sogni confusi che da qualche tempo lo perseguitavano. S’infilò con la macchina nel caos mattutino del traffico milanese. Il cielo era grigio in sintonia con il suo umore e come il solito sarebbe potuta cadere dell’acqua sporca che si ostinavano a chiamare pioggia. O indifferentemente uscire una vaga parvenza di sole. O il tempo avrebbe potuto decidere di non decidersi e restare così malinconico e incerto per tutta la giornata. Non è mai facile decidere qualcosa, nemmeno per il tempo. Del resto, chissà poi qual è la decisione giusta.
Ma in definitiva tutto ciò interessava ben poco all’Edo. Guidava meccanicamente la sua automobile lungo il solito percorso che da anni da casa lo portava all’ospedale di Niguarda, ove lavorava da quando, già da prima della laurea, aveva abbandonato la natia Intra per trasferirsi a Milano; nello stesso piatto modo proseguiva la sua vita, giorno dopo giorno, senza sussulti: una normale tranquilla vita di stimato medico ospedaliero.
L’ingombrante SUV dell’Edo si muoveva a fatica nell’intenso traffico cittadino, che mai come quella mattina sembrava procedere a rilento. Davanti a lui un’utilitaria avanzava lentamente; un semaforo divenne giallo, la macchinetta avanzò incerta, lui si buttò nella sua scia accelerando: il semaforo divenne rosso e l’utilitaria frenò di colpo. L’Edo, stanco e distratto, se n’avvide troppo tardi e tamponò violentemente la vettura che lo precedeva.
Si mise a imprecare. La pesante macchina dell’Edo non s’era neppure ammaccata; avrebbe desiderato correre via, ma, medico e persona corretta com’era, scese e andò verso la vetturetta. Una donna, più o meno della sua età, avvolta in un attillato impermeabile giallo, sembrava svenuta, il capo reclinato sul poggiatesta, il viso bianchissimo incorniciato e messo in risalto da una cascata di capelli biondi; la cintura di sicurezza l’aveva fortunatamente protetta: aveva ricevuto solo un bel colpo di frusta. Sul sedile posteriore un bambinetto rideva nervosamente, dando l’impressione però di essere più divertito che impaurito.
L’Edo prese la donna delicatamente per un braccio, sganciò la cintura di sicurezza, l’aiutò a scendere dalla macchina.
“Dio, è bellissima” – non poté fare a meno di pensare l’Edo, molto poco professionalmente.
Le diede un buffetto sulla guancia, che iniziava a tornare rosea.
“Mi scusi… della frenata…” – disse lei ancora confusa, liberandosi con una mano il viso dai capelli, guardandolo ad un tempo negli occhi, prima attenta, poi smarrita.
Lui la guardò negli occhi azzurri e le disse: “È anche colpa mia, signora… sa, sempre questa maledetta premura…” e poi non soggiunse più niente, totalmente smarrito.
Intanto, come per un’antica consuetudine, con la mano, delicatamente, l’Edo le liberava il bel viso da ciocche di capelli e sembrava che stesse riportando alla luce un tesoro perduto da tempo. Lei lasciava fare: sì, era proprio lei il tesoro seppellito da anni nelle viscere nere dell’oblio e che ora all’improvviso, in una grigia mattina milanese, ritornava alla luce, splendente come non mai.
Si guardarono negli occhi: gli sguardi, increduli, superavano la barba che lui da qualche anno s’era fatto crescere ed il trucco cui lei recentemente ricorreva per cancellare qualche indesiderata ruga; gli sguardi andavano ben oltre i primi fili bianchi nei capelli e scavavano nell’animo, penetravano nel cuore, scardinavano migliaia di coperchi, facevano esplodere certezze che pensavano d’aver suggellato per sempre. Non solo il loro sguardo, ma tutto di loro arretrava vorticoso e inarrestabile nel tempo di anni, anni e anni.
Un campo di grano… sdraiati e ancora abbracciati… il sole e il cielo del lago nei loro occhi… “Non ti dimenticherò mai…” “Giuramelo”. “Te lo giuro!”
“Edino?” – disse alla fine timorosa la Luisa, facendo un passo indietro, come per guardarlo meglio o forse solo per allontanarsi un poco da lui.
“Luisa!” – rispose incredulo e sbigottito l’Edo, avanzando invece di un passo e facendosi a lei ancora più vicino, a sfiorare quel corpo: i sogni confusi degli ultimi tempi, divenivano all’improvviso realtà.
Lui la teneva per un braccio, come per non farla fuggire, e sentì che lei iniziava a tremare, mentre a lui si gonfiarono ad un tratto gli occhi di lacrime: confusione e sconcerto negli animi. Colpiti a tradimento dal pesante maglio delle emozioni, avviluppati all’improvviso da un sentimento che pensavano d’aver smarrito lungo i sentieri della vita, si trovarono l’uno nelle braccia dell’altra: le labbra dell’Edo ritrovarono i capelli della Luisa, Luisa che scoppiò in un pianto senza lacrime, mentre gli cingeva il collo con le braccia, stringendolo senza forze.
Intorno a loro, incredibilmente, il mondo non s’era fermato, ma continuava a correre come sempre con il chiasso assordante del traffico: ma c’erano due persone, improvvisamente tornate ventenni, che, incuranti di tutto, si abbracciavano violentemente e teneramente ad un tempo, come se non fossero state le otto di un grigio mattino d’autunno in un’anonima via di Milano, ma si trovassero ancora una volta in uno dei tanti ben noti prati fioriti che profumavano di colori le acque del lago Maggiore.
Mentre per l’aria si diffondevano le note di “Only you” cantate dai Platters, l’Edo e la Luisa si tenevano stretti, frastornati, come ebbri, in un vortice infinito di sensazioni, di pensieri, di ricordi, di voluttà, in un mulinello che girava così forte intorno a loro da fondere tutto ciò in un unico sentimento dimenticato da tempo e che non poteva che chiamarsi amore.
Era durato un’eternità, come sembrò loro, l’abbraccio seguito al tamponamento? No, solo pochi secondi era durato e già un vigile s’era accostato e diceva sgarbatamente a loro: “Scusate, ma vi sembra questo il posto per abbracciarvi così? Via, spostate subito le auto dall’incrocio e poi datemi i documenti. Siete in contravvenzione entrambi”.
L’Edo e la Luisa trasalirono, si scossero, si staccarono, salirono sulle rispettive auto, le accostarono al marciapiede, poi ridiscesero e, confusi e mortificati, consegnarono i documenti al vigile; mentre questi scriveva il verbale, l’Edo e la Luisa continuavano a guardarsi perduti negli occhi senza più avere però la forza di parlare.
La Luisa, che teneva adesso per mano il bambino che era con lei in macchina, un bel bambino ricciolino, disse all’Edo completamente frastornata: “Mi scusi signore, non so cosa mi sia successo: forse è stato lo choc del tamponamento, ma l’avevo scambiata per un mio amico che non vedo da molti, forse troppi, troppi anni. Ora devo andare”.
“Luisa… ma cosa dici mai…”
“Addio, signore, e… mi scusi ancora”.
“Luisa, signora… mi dia, dammi almeno il tuo telefono… per l’assicurazione”.
“È inutile, la sua auto non ha riportato danni e la colpa del tamponamento è solo mia. Quindi l’assicurazione non serve a nessuno dei due. Ma soprattutto scambiarci gli indirizzi non servirebbe proprio a nessuno dei due, mi creda. A nessuno dei due…”
Tremava ora la Luisa, le emozioni erano state troppe e aveva la testa che le scoppiava. Inoltre il bambinetto aveva iniziato a piagnucolare in modo noioso e isterico.
“È tardi, è troppo tardi: debbo andare, addio per sempre” – disse in tono conclusivo la Luisa; allungò la mano gelida per un saluto formale, mano che lui strinse avidamente con entrambe le sue, che erano ancora più fredde: cercò istintivamente di tirarla a sé, di trattenerla, ma lei si divincolò e lui non ebbe la forza di opporsi; la Luisa fece entrare, quasi spintonandolo, il bambino sull’auto e vi salì di corsa anche lei; l’avviò e d’un balzo fuggì, fuggì via. “Per sempre” gli aveva detto. “Per sempre” ripeté l’Edo.
2 – Le parole vuote
L’Edo, giunto in ospedale, si buttò pesantemente sulla poltrona del suo studio, fissando il buio vano della porta, senza vedere nulla; in realtà fissava l’infinito, il vuoto: forse il vuoto della sua vita. Restò così a lungo; il telefono squillò più volte, alla fine alzò meccanicamente la cornetta: era la moglie. L’Edo, ancora frastornato, non rispose neppure e abbassò come un automa la cornetta; poi riprese a fissare la porta, l’infinito, il vuoto: sì, ora ne era certo, il vuoto degli ultimi anni della sua vita.
Non si accorse subito che era entrata. Poco per volta nel buio del vano della porta si concretizzò un impermeabile giallo: e ci doveva essere pur qualcuno dentro a quel giallo impermeabile.
“Ciao, Edino” – gli disse con un filo di voce la Luisa.
Gli anni erano passati: Dio solo sapeva quanti! Ma era sempre bellissima, la Luisa. E quella voce: inconfondibile. E il piacere di sentirsi chiamare di nuovo “Edino” era immutato.
“Ciao Luisa. Sono stanchino, credimi. È finita? Ma questa volta per sempre?” – rispose l’Edo, ponendo domande che non potevano avere risposte.
“Sì, Edino, è finita veramente: ma volevo salutarti, non volevo che il tuo ultimo ricordo di me, fosse di me che fuggivo. Ho portato mio figlio a scuola e ora sono venuta solo per dirti ciao”.
“Ebbene, ciao Luisa. È finita” – disse, spento, l’Edo ancora una volta, forse più a se stesso che non alla Luisa. La mattinata era buia, lo studio dell’Edo era illuminato da una bianca lampada al neon che ronzava: questo ronzio riempiva il silenzio, riempiva di nulla le loro vuote parole. Come una sega circolare, quel ronzio stava spaccando in due la testa dell’Edo e dal cranio spezzato uscivano sciami di fantasmi che s’erano accucciati lì silenziosi dal giorno in cui lui era scappato dal lago Maggiore, abbandonando sotto quei cieli azzurri la sua gioventù e con essa l’amore della sua vita, così grande da averlo spaventato al punto d’averlo fatto fuggire; ma ora i fantasmi erano tornati e andavano all’assalto dell’Edo con la grazia di un battaglione di bersaglieri.
“Come hai fatto a sapere che ero qui?” – aggiunse poi l’Edo. Ma non era curiosità, nemmeno interesse. Non era neppure una vera domanda. Era così, tanto per dire qualcosa.
“È più di un anno che vivo a Milano, in questo quartiere” – iniziò a dire la Luisa. “Mio marito è un ufficiale dell’esercito e lo trasferiscono spesso di qua e di là per l’Italia”.
“Un ufficiale… Un anno…” – rispose come un eco l’Edo.
“Pensa un po’: i nostri figli vanno a scuola insieme…” – sorrise la Luisa. Forse con quel sorriso voleva dire qualcosa, o forse no. Lei non lo sapeva, nessuno lo sapeva. Parole vuote, dette per sentirne il suono.
“I nostri figli… insieme…”
“Un giorno, durante una riunione a scuola con le insegnanti, mio figlio è stato male, nulla di grave, sai, la crescita… e una signora – tua moglie – s’è offerta di portarlo qui, in ospedale, per farlo visitare da te”.
“Mia moglie… da me…”
“Mi ha parlato di te, s’è presentata e, incredula, non ci ho messo molto a capire che quel medico eri tu”.
“Eri tu” – ripeté l’Edo sempre più lontano. I fantasmi di lago s’erano presa una lunga licenza, ma ora erano tornati, stavano uscendo a frotte dal suo cranio spaccato. Sono forti, i fantasmi di lago, in particolare quelli del lago Maggiore, forti e testardi, non s’arrendono mai, non ti dimenticano mai. Ma lui era pronto per riceverli, da tempo aveva capito che stavano arrivando e lui non aveva più energie per fuggire una seconda volta e fuggire dove, alla fine?
“In questi mesi ho sempre temuto e sperato ad un tempo che avremmo finito per incontrarci…” – proseguì ancora la Luisa.
“Temuto… sperato… incontrarci…”
“Sono mesi che vivo male, in angoscia, nell’attesa di questo momento. Ma ora che ti ho visto, sono più tranquilla: sappiamo tutti e due che finalmente è finita”.
“In angoscia. È finita, Luisa, sì, è finita per sempre. Sono più che stanchino, sono stanchissimo. Non posso più fuggire come feci allora. Ma ero giovane e avevo paura d’una cosa più grande di me”.
“Basta parlarne. Volevo solo dirti questo, Edino; ricordi quel giorno sul lungo lago? Avevamo ancora gli abiti pieni d’erba e di fiori, il cuore innamorato straripava del sole dell’estate; ricordi che quando, tra un bacio ed una lacrima, mi dicesti che partivi e io ti dissi che non ti avrei mai dimenticato e che ti avrei portato sempre con me? Così è stato fino ad oggi e sono contenta nel vedere che, mi sembra, anche tu non mi hai dimenticata”.
“Ovunque sarai, sarai con me” – disse meccanicamente L’Edo, ripetendo una frase che le aveva detto cento volte sdraiati tra accoglienti covoni di grano.
“Edino, ti prego: l’hai detto anche tu, che è finita. Non rendiamo tutto più difficile. Ma ora devo salutarti: sabato parto, mio marito è stato trasferito in Sicilia, e ho tante cose da fare. Penso proprio che non ci rivedremo più. Mai più. Ciao, Amore grande”.
Non era più questione d’un fantasma o due: ora era un vero sabba intorno all’Edo. L’esile diga che li aveva trattenuti per anni era crollata ed ora dal suo cranio i fantasmi stavano uscendo proprio tutti, come la nera buzza che scende dai monti di Intra dopo una notte di pioggia di torrente in torrente e trova un poco di pace solo quando riesce a riversarsi nel lago. La Luisa gli tese la mano sopra la scrivania, forse per farsela baciare, forse per farsela stringere, forse per farsela afferrare ed essere trattenuta, o forse solo per un normale ultimo saluto tra persone bene educate. Nessuno dei due sapeva bene quello che voleva, quello che faceva, quello che diceva. Avevano improvvisato battuta per battuta questa nuova e ultima scena della commedia imprevedibile della loro vita.
3 – A casa per sempre
L’Edo non la vide nemmeno la mano della Luisa che si protendeva verso di lui, quasi a toccarlo: per la verità non riusciva neppure più a vedere la Luisa, a vedere quella figura che gli era stata innanzi; vedeva solo l’infinito, il vuoto: il vuoto della sua vita.
L’Edo a fatica guardava attraverso le lacrime che gli gonfiavano gli occhi, cercò di mettere a fuoco l’immagine di fronte a lui. Non c’era più, gli sembrava, un giallo impermeabile. Ma c’era mai stato? O forse era apparso un fantasma più tosto degli altri?
Si alzò, si tolse il camice e, lisciandolo con cura con le mani, l’appese all’attaccapanni dal quale tolse giacca e cappotto, che indossò con attenzione e calma.
L’Edo s’avviò per il corridoio, chiamò l’ascensore, vi entrò e premette il bottone del piano terreno.
La porta s’aprì sull’ampio salone a vetri dell’ingresso. Il cielo grigio di Milano s’era alla fine deciso e, rompendo ogni incertezza, ora pioveva a dirotto: pioggia fitta e sporca. L’Edo, uscito dall’atrio, dovette attraversare tutto il piazzale delle ambulanze per raggiungere il parcheggio. Si chiedeva dove dovesse andare, cosa dovesse mai fare, fantasma circondato da fantasmi.
Vagò a lungo sotto l’acqua attraversando più volte il parcheggio in lungo e in largo: la testa gli ronzava forte e tra tutte quelle auto non riusciva più a trovare la sua.
Un’utilitaria gli s’avvicinò, si fermò: ne uscì sua moglie, che, preoccupatissima dopo la telefonata senza risposta, aveva raggiunto di corsa e trafelata l’ospedale.
Lui non la vide, o se la vide non la riconobbe, e passò oltre, alla ricerca del tesoro ritrovato e subito perduto. Per sempre.
Lei lo rincorse, lo raggiunse, lo prese con forza sottobraccio, aprì l’ombrello e cercò di ripararlo. Ma lui camminava veloce ed alla fine l’ombrello non protesse più nessuno dei due. L’Edo grondava acqua, aveva tutti gli abiti appiccicati. Continuava a guardarsi attorno, ma si sa, alla luce del giorno i fantasmi scompaiono.
“Non preoccuparti di niente, qualunque cosa ti sia successa: sono qui io ora. Adesso ti porto a casa” – disse all’Edo sua moglie.
“Luisa: è finita… per sempre… ” – mormorava l’Edo.
“Sì” – disse la moglie che nella concitazione del momento aveva colto solo le ultime parole del marito. “Sì, Edoardo, ti porto a casa: per sempre”.
Liborio Rinaldi