UN RICORDO DI PIAZZA FONTANA

Il 12 dicembre 1969 nella Banca dell’Agricoltura di Milano esplose una bomba, di matrice tutt’ora  non chiarissima, nonostante anni di processi e sentenze infinite di condanne e di proscioglimenti;  l’attentato provocò 14 morti e numerosi feriti, dando ufficialmente il via al periodo che sarebbe  stato chiamato ‘degli anni di piombo’. Nello stesso giorno il sottoscritto prendeva servizio come  Ufficiale di Picchetto presso la caserma di bersaglieri Mameli di Milano, ove era stato distaccato in  appoggio con una compagnia di carristi dal comando di Novara della divisione Centauro per  svolgere il periodo di sotto tenente di prima nomina. Questo è il racconto di quelle 24 lunghissime  indimenticabili ore. 

Andavo su e giù, su e giù, venivo sballottato in continuazione (“Signor tenente… Signor  tenente…”), ma non capivo bene dove mi trovavo: a volte mi sembrava di essere su una barca a  vela trascinata dalle onde in mezzo al lago Maggiore (“Signor tenente… Signor tenente…”), con  l’albero schiantato, le vele nell’acqua che mi avvolgevano; a volte invece mi sembrava di trovarmi  in vetta al monte Zeda, infagottato in una pesante giacca da montagna, sferzato dal vento, in un  turbinio di neve, blocco di ghiaccio. “Signor tenente, Signor tenente, si svegli!” Mi svegliai  finalmente, scosso con energia dal sergente capoposto; ci misi non poco a rendermi conto che non  ero nei miei amati luoghi, ma che mi trovavo nella caserma Mameli di Milano, ufficiale di  picchetto, in quella tragica vigilia del Natale 1969. Era il cuore della notte; sfinito dopo una  drammatica giornata, mi ero buttato sulla branda del posto di guardia e subito ero crollato, preda  d’un profondo sonno. Poco per volta iniziavo a ricordare l’incalzarsi degli avvenimenti delle ultime  ore: lo scoppio della bomba nella Banca di piazza Fontana, lo stato di allarme generale, il  colonnello comandante della caserma che va al Corpo d’Armata in seduta permanente con gli alti  gradi ed io, ufficialetto di prima nomina, che monto di servizio ritrovandomi in quella confusa  situazione a comandare l’intera caserma, 1200 bersaglieri e 150 carristi. Dopo qualche ora di  grande incertezza, in un’atmosfera di tensione e di fermento, era giunto un carabiniere  portaordini motociclista con un plico sigillato: allarme di terzo livello, il più alto prima dell’uscita  dalla caserma con uomini e mezzi in armi: eseguirlo ed attendere nuovi ordini. Aprii la cassaforte,  lacerai la busta con le istruzioni, le lessi e le rilessi: le eseguii, senza esitare; ed ora eccomi qui, la  guardia raddoppiata, i veloci carri leggeri M113 schierati nel cortile con la pesante mitragliatrice  Browning montata e dietro a loro le ombre sinistre dei grandi carri armati M60 con i cannoni da  105 che sembravano brandeggiare nel buio; nelle camerate i soldati dormono in tuta mimetica ed  anfibi ai piedi delle brande, con accanto gli zaini affardellati, gli elmetti ed il fucile d’assalto Garand  negli armadietti individuali aperti; le cassette di munizioni già predisposte in bell’ordine sui tavoli  dell’armeria, la cui fredda chiave, nella mia tasca, continuo a stringere nervosamente. Al prossimo  ordine so già le poche terribili semplici cose che dovrò fare: distribuire le munizioni e leggere il  luogo ove concentrarsi, ubbidendo senza esitare.  

“Signor tenente, Signor tenente, si svegli!” Balzai in piedi: ora ero completamente desto; il  capoposto mi aveva svegliato per avvertirmi che la sentinella del bastione accanto alla polveriera  aveva notato una macchina avvicinarsi con fare sospetto fin sotto il muro di cinta della caserma e,  lì giunta, spegnere le luci. Poi, più nulla. Mandai tre uomini con un mitragliatore di appoggio alla  sentinella, per inquadrare la macchina e tenerla sotto tiro; chiamai la jeep di servizio, feci sintonizzare dal marconista la radio per non perdere il collegamento con la caserma; non volevo correre rischi e chiamai a seguirmi una seconda vettura di scorta: attraverso il passo carraio,  aperto e subito richiuso, uscimmo silenziosi fendendo con le gialle luci la fredda notte. Girammo  cautamente lungo il muro di cinta, ci fermammo quando intravedemmo, attraverso la leggera  nebbia, la macchina ferma dove era stata segnalata. Spegnemmo i motori e le luci: dalla macchina,  nessun cenno di vita. Scendemmo cautamente, lasciai le vetture con gli autisti di guardia ed un secondo soldato di scorta; ci avvicinammo alla macchina sospetta a ventaglio, chini tra le erbacce:  nulla. Eravamo a pochi metri, ma non potevamo scorgere gli occupanti della macchina solo perché  i vetri erano appannati; impugnai la mia Beretta, ordinai con un gesto di togliere le sicure alle  armi: ancora nulla, al di là dei cuori che volevano scoppiare. Infilai il basco nero nella tasca della  mimetica, calzai anch’io l’elmetto, compimmo gli ultimi passi carponi, tra fastidiosi rovi, quindi  balzammo tutti insieme, come avevamo fatto tante volte nelle esercitazioni anti-terrorismo: due  uomini spalancarono le portiere posteriori, un altro quella anteriore dell’autista accendendo una  torcia elettrica; io spalancai quella di destra, puntai la pistola all’interno dell’abitacolo intimando  con decisione il “Fermi o sparo!”  

Vivevamo giorni disperati respirando aria di morte e c’eravamo dimenticati che intorno a noi  pulsava ancora la vita, che c’erano ancora le carni rosa di donna, che c’erano ancora i pesanti  profumi dell’amore, che c’erano ancora i gemiti non di paura, ma di felicità.   Due giovani, sorpresi a fare l’amore all’interno della vettura, lanciarono un grido di terrore.  Riponemmo le armi; li feci identificare più per prolungare quella visione che per vera necessità; li  allontanammo, rientrando storditi, confusi e silenziosi nella caserma. Ma ormai il sonno era finito.  Salii sull’osservatorio del muro di cinta, mi accesi una sigaretta guardando la strada al di fuori della  caserma: da ore non passava più nessuno. Milano s’era chiusa in se stessa, attendendo chissà che  cosa, incerta del suo futuro, come l’Italia tutta. Il sergente mi affiancò, gli passai la sigaretta  accesa. “Signor tenente, cosa ne pensa? Crede che arriverà l’ordine di uscire?” Era questo che da  ore continuavamo a pensare tutti, in modo ossessionante: arriverà l’ordine di uscire? E per andare  dove? E per fare che cosa? “Sarebbe una strana guerra, Signor tenente” – proseguì il sergente – “perché sta per scoppiare, forse è già scoppiata, ma non sappiamo ancora chi è il nemico”. Sono scosso da un brivido: freddo? Paura? Forse tutte e due le cose insieme. “Sergente, tutte le guerre  sono strane e non si possono capire. Ma se dovesse giungere l’ordine che temiamo, ed io te lo  impartissi, tu ubbidirai?” – gli domandai quasi gridandogli in faccia le parole. Lo stavo, in realtà,  chiedendo a me. Avrei ubbidito? Strani pensieri, da far disperdere subito nella notte buia. Il  sergente mi guardò diritto negli occhi. “Mio padre ha fatto l’Africa, Signor tenente, e poi il  partigiano. Ha sempre ubbidito. Prima di qua, poi di là, senza mai fare domande. Cosa posso fare  io? Posso solo ubbidire, ed ubbidirò, sperando però, almeno io, di tornare”.  

La nebbia s’era fatta ancora più fitta, i fari del muro di cinta la squarciavano a fatica. In fondo alla  strada s’intravedevano le luci intermittenti di uno spettrale albero di Natale. Ma sarebbe mai giunto il Natale? Mi sfilai il gelido elmetto e l’appesi al cinturone; dalla tasca della tuta mimetica  presi il nero basco da carrista e me lo calzai sulla fronte: la nebbia mi bagnava il viso. O forse  piangevo. Forse piangevo tutti i Soldati morti in Africa, morti per un ordine sbagliato, e tutti i  Partigiani morti in montagna, morti per un ordine giusto, perché chi perde dà ordini sbagliati e chi vince dà ordini giusti; piangevo anche tutti i miei ragazzi che sarebbero morti fra un’ora o fra un  giorno per un ordine che avrei dato io, per un ordine che non sapevo nemmeno se sarebbe stato  giusto o sbagliato. Piangevo le donne che non avremmo mai abbracciato, piangevo i figli che non  avremmo mai avuto. Ma non ci sono morti buoni e morti cattivi: ci sono solo morti, morti che  diventano tutti, a distanza d’anni, solo morti inutili. Lo sapevo, lo sapevamo tutti, ne eravamo profondamente convinti, eppure eravamo lì, 1200 bersaglieri e 150 carristi, comunisti e fascisti,  ignoranti e professoroni, eravamo tutti lì nell’attesa dell’ordine che ci avrebbe trasformato in  morti inutili. Ma tutti sapevamo anche che quando l’ordine sarebbe arrivato, io l’avrei impartito ed  io sapevo che l’ordine sarebbe stato eseguito da tutti.  

In quella ormai lontana notte, mancavano pochi giorni a Natale, ma chi ci pensava più? Se la Sacra  Famiglia abbracciava il Bambino, noi abbracciavamo le fredde canne delle nostre armi, che erano  pronte ad emettere luminarie ben diverse di quelle poche che illuminavano tristi e sparute le vie  del centro!  

Rimuginando questi pensieri intanto la notte era trascorsa senz’altre novità e la nebbia si sollevò  un poco, dissolta dall’incerto sole nascente. Giunse l’alba ed un primo tram, scampanellando,  ruppe il silenzio ponendo fine alla notte, notte che, in qualche modo, era terminata senza che  nulla fosse avvenuto, il che non era già cosa da poco. Feci dare il cambio ai picchetti armati; andai  nella sala trasmissioni: per radio c’era un intenso traffico di messaggi in codice, ma nulla che ci  riguardasse. Giunsero le sei e passarono, giunsero le sette e passarono, alla fine dal Comando del  Corpo d’Armata giunse anche un carabiniere portaordini motociclista. “Nessuna risposta, signor  tenente” mi disse porgendomi la busta sull’attenti. Salutò e se n’andò. Presi la busta con calma e  mi diressi lentamente al posto di guardia. Chiamai presso di me il sergente, andai alla scrivania, mi  sedetti, posai la busta sul tavolo e la guardai con curiosità. Mi persi per qualche eterno secondo a  contemplare i rossi sigilli, a cercare di decifrare la scritta impressa su di essi, ad esaminare il rilievo  della ceralacca. La busta era gialla, di pesante carta gialla, ed un piccolo ragnetto iniziò ad  esplorarla, fermandosi perplesso davanti ad un sigillo, ostacolo insuperabile. Avevo pensato che in  quel momento avrei tremato, che avrei sudato freddo ed invece ero calmissimo e completamente  lucido. Mi accorsi solo che stavo stringendo con la mano in tasca fino a farmi male la chiave  dell’armeria. Alzai gli occhi verso il sergente, che mi guardava bianchissimo. Molto informalmente  s’era seduto sulla sedia di fronte alla scrivania. Serrava con le due mani il fucile semiautomatico e  la lucida canna rifletteva un raggio di sole sporco come i vetri della finestra da cui entrava. Il  tempo s’era come fermato… ma all’improvviso lacerai la busta ed iniziai a leggere a voce alta:  “Scalare da allarme di grado tre ad allarme di grado uno; libera uscita e licenze ridotte; mantenere  la guardia rinforzata”. Il sergente disse a fatica deglutendo saliva: “Meglio così signor tenente;  meno eroi ci sono e meglio è”. “Eseguire” dissi brusco io. Il sergente uscì, sentivo la tromba che  con gli squilli impartiva gli ordini, sentivo accendersi i motori dei carri, che lentamente erano  riportati dagli autieri nei garage, tra l’assordante rumore dei cingoli; sentivo trambusto, voci e  risate, scambi d’auguri di Natale per chi sarebbe partito, sentivo la vita che, congelata per una  lunga notte, tornava a scorrere. 

Ma non in me. Mi buttai sulla branda, socchiusi gli occhi e rividi la ragazza della notte prima; pur  avendola potuto osservare solo per pochi momenti, ora la rivedevo distintamente in ogni  particolare. Osservavo i suoi occhi blu, dilatati dall’amore e dalla paura, indugiavo sul suo bianco  seno, che saliva e scendeva affannoso, mi perdevo tra le sue intimità. Mi sembrò di vagare in  quella visione a lungo, in realtà passarono solo pochi minuti. Il telefono squillava, c’erano ordini da  ricevere, c’erano ordini da impartire. A metà mattinata rientrò il colonnello, mi chiamò a rapporto  per sapere com’era trascorsa la notte. “Nulla di particolare, signor colonnello”. L’assalto alla  macchina non l’avevo scritto nel rapporto. Il colonnello parlava, parlava, diceva del pericolo della  rivoluzione, di questo e di quello, ma io non lo sentivo; io, impalato sull’attenti, lo guardavo, ma  invece di vedere la sua bocca che si apriva e che si chiudeva, in realtà rivedevo due labbra rosse,  che gemevano affannose.  

Giunse alla fine anche l’ora del mio cambio, passai le consegne ponendo fine a indimenticabili 24  ore. Tornai negli alloggi, mi tolsi la tuta mimetica, indossai la divisa, tolsi il caricatore dalla pistola,  consegnai il tutto in armeria. 1200 bersaglieri, 150 carristi: avremmo ancora potuto abbracciare  donne, avremmo ancora potuto avere figli. La mia guerra era finita per sempre. 

Liborio Rinaldi

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