LA IDA DUL CAVAGNIN

LA IDA DUL CAVAGNIN

La “Ida dul cavagnìn”

Settimana scorsa, cosa che faccio quando sono in debito d’ossigeno, mi portai in macchina a Laveno per raggiungere la sponda piemontese attraversando il “Lago Maggiore, ove vorrei vivere e non morire mai”, come diceva Daniele Finelli.
Confesso che rimasi un poco deluso: non che mi aspettassi fanfare o tappeti rossi, questo sarebbe stato pretendere troppo, ma mi sarebbe bastata una giornata di sole delle sue ed il lago m’avrebbe accolto in pompa magna, gratificandomi dopo la mia colpevole assenza.
Invece Laveno era uggiosa, coperta da una fitta nebbiolina, le strade bagnate, le piante gocciolanti tristezza dalle poche foglie rimaste tenaci alla ricerca d’un sole che più non c’era. Salii mogio sul traghetto e raggiunsi subito il ponte superiore, ma il lago s’era truccato da mare e non vedevo l’opposta sponda, quella che un crudele vischio tiene appiccicata al mio cuore: non riuscii nemmeno ad intravedere la verde cupola del San Vittore e tantomeno la bianca colonna del porto vecchio. Nebbia, solo fredda nebbia che mi infradiciò le attese, al punto che, con un grande magone nel cuore, scesi sottocoperta ed entrai nel piccolo bar, proprio mentre il traghetto si metteva in movimento, lasciandosi alle spalle la sponda lombarda.
Erano le nove del mattino: ordinai alla giovane barista sfaccendata un cappuccio ed una brioche, ottima, veramente fresca.
“Ottima, questa brioche, veramente fresca” – dissi alla giovane barista, ma il complimento era per lei. Potevo permettermelo, un complimento, perché quella ragazzina poteva essere mia nipote.
“È stato via? Per molto tempo?” – mi chiese la ragazzina che m’aveva già inquadrato, aveva capito tutto.
“Non lo so se sia stato tanto tempo o poco tempo: è stato il tempo d’una vita e quindi può essere stato un fiat o un’eternità. O meglio, è un fiat quando è alle spalle, come per me, ed è un’eternità quando è davanti, come per te”.
Che brutta abitudine quella di dare del tu a tutti. Ma del resto non ho più l’età per redimermi e posso solo peggiorare, in questo come in altre cose.
“Scusa se t’ho importunato” – dissi, ma era evidente che era una bugia, perché m’aveva fatto piacere scambiare due parole con quella ragazzina per tirarmi su di morale dopo la delusione che m’aveva preso imbarcandomi.
“M’interessa molto parlare con le persone e cercare di capirle” – disse un poco a sorpresa la giovane barista – “perché studio psicologia all’università e lavoro per mantenermi agli studi e così, tra un caffè ed un aperitivo, conosco tanta gente, la osservo e metto in pratica quello che studio”.
Eccomi servito: in un attimo l’avventore un poco impiccione è stato trasformato in un soggetto da psicanalizzare. La cosa non mi fece felice e mi mise nuovamente di malumore.
“Chissà quante persone interessanti avrà conosciuto in tutta la sua vita” – proseguì la fanciulla, visto che il discorso s’era raggrinzito, perché forse voleva ripassare un qualche esame che aveva in preparazione.
Non risposi: mi sollevai dal lettino di quella psicanalista da bar – era il caso di dirlo – ed uscii sul ponte, trovandomi con grande sorpresa in pieno sole. Il traghetto era uscito quasi all’improvviso dalla nebbia della sponda lombarda ed ora avevo di fronte, quasi a portata di mano, tutto ciò che avevo immaginato e sognato di rivedere. Ma non lo vidi, perché iniziò a scorrere davanti ai miei occhi un film di bianchi incerti fantasmi, con però voci ed emozioni nitidamente scolpite nel mio animo per sempre: erano i fantasmi di lago, una specie dura, molto particolare, che aleggia di giorno e di notte.
Spesso un cuore è troppo piccolo per contenere tutti i sentimenti che vengono gettati in esso alla rinfusa nel corso degli anni e a volte si ha desiderio di mettere un poco d’ordine in esso, magari aiutati dalle parole casuali di una piccola psicologa da quattro soldi, specie se il tempo che si ha è quello al di là delle cose da fare.
Dunque rientrai nel bar, ordinai alla ragazzina un bel grappino probabilmente poco in sintonia con l’orario mattutino ed iniziai a raccontare, mentre il traghetto faceva infinite volte il suo tragitto da Intra a Laveno e ritorno e venne la notte e poi il giorno e forse passarono anche le stagioni e con esse una vita intera che solo stamani sembrava dovesse essere ancora lunga come un’eternità.

Con un salto da funamboli andiamo alla fine degli anni ‘50; vedo avanzare, emergendo dalle brume dei ricordi e dalle foschie invernali del lago Maggiore, che rendono evanescenti case e cose, vedo avanzare, dicevo, una vecchietta, tutta avvoltolata in rattoppati scialli e scialletti, che trascina i piedi stanchi con appeso al collo un deschetto ricolmo di variopinte caramelline, di bastoncini di liquirizia verdognola da succhiare e di rotonde verdi scatolette di “Tabù”. Era la Ida dul Cavagnìn, come l’avevamo affettuosamente soprannominata noi bambini delle scuole elementari.
Infatti, la Ida, che normalmente apriva la bottega (uno sgabello di legno ed un minuscolo tavolinetto) in un buio angolo di un porticato nei paraggi dell’imbarcadero dei battelli di Intra, proprio di fronte al nobile e vetusto palazzo delle Beccherie, una mezz’oretta prima del finis delle lezioni, trasferiva la sua botteguccia davanti alla scuola elementare femminile e poi davanti a quella attigua maschile risalendo la Ruga, tranne il sabato, che allungava il percorso passando per la piazza Teatro, ove v’era il mercato, per cercare di vendere anche lì qualcosa.
Le classi erano numerose, anche se si usciva dagli anni della guerra, e le aule di noi maschietti e delle femminucce erano ben separate in differenti edifici; non solo: per evitare ogni possibile incontro, la campana della sezione femminile suonava ben 10 minuti prima di quella della sezione maschile, di modo che, quando noi uscivamo, le nostre colleghe erano già abbondantemente sulla via di casa, anche se per la verità in quegli anni austeri e bacchettoni non ci passava nemmeno per la testa di abbordare le colleghe, che per altro non ci degnavano neppure d’uno sguardo.                                                                         La Ida approfittava di questa doppia uscita per fare i suoi piccoli affari con agio, evitando l’accavallarsi delle classi. Prima le bambine, poi noi, si sfilava davanti al cavagnino della Ida, spesso più per lustrarci gli occhi con tutte quelle leccornie colorate, che non per comprarle, perché non sempre si avevano nella saccoccia del grembiule (rigorosamente nero con colletto bianco inamidato per noi e bianco con soffice fiocco rosa per le bambine) le cinque o le dieci lire necessarie per la bisogna. Nessuno dei nostri genitori nuotava nell’oro e i prezzi per noi erano elevatissimi, al punto che spesso si usciva in drappello e ci si avviava verso la vecchietta cantando minacciosi in coro, sull’aria di “bandiera rossa”:
“ e se la Ida,
non ribassa i prezz,
faremo a pezz,
el so’ cavagnin!  ”                                                                                                                                                                                                        E la Ida, a sentire tale perentorio coro, sembrava davvero impaurita ed i prezzi scendevano a precipizio e nessuno andava via così a mani vuote. Quanti sconti, quanti resti sbagliati a bella posta ci regalasti, cara Ida!
Quando poi giungevano le sospirate vacanze di Natale, la Ida, in assenza dei suoi piccoli clienti, non si muoveva per tutto il giorno dal suo freddo e buio angolo del porticato; a sera la si vedeva infreddolita e stanca  con i capelli resi ancora più bianchi da qualche turbine di neve, che si era infiltrato maligno sotto al porticato, giungendo fino a lei. Smontava silenziosa la sua bottega e, trascinando sempre più faticosamente i piedi, si ritirava nella sua abitazione, una stanzuccia ricavata da un magazzino abbandonato del vicolo degli Operai.                                                                                                                                             Ma una mattina, una brutta mattina di febbraio, la Ida fu trovata riversa a terra, semi assiderata, con il suo cavagnino rovesciato ed il selciato cosparso di mille piccole caramelle colorate. La Ida passò direttamente dalla sua botteguccia all’ospedale e dopo qualche giorno di vaghe cure mediche dall’ospedale all’ospizio dei “vecchioni”, come si diceva allora, e, in rapida corsa nel giro di un paio d’anni, proseguì dall’ospizio al camposanto.                                                                                          Poiché poi nel suo materasso, analizzato subito con gran cura, si trovarono solo stracci e giornali, usati come imbottitura, e neanche uno spicciolo, non apparvero parenti né vicini né lontani e quindi il funerale fu a spese del Comune, con una carrozza di terza, senza accompagnamento di banda o d’orfanelli.
Lo seguì solo una frotta vociante di ragazzetti, che già si cimentavano con il latino delle scuole medie e con i primi vari inciampi della vita; e questi, mentre guardavano il prete che benediceva il feretro, pensavano che forse da quel giorno in paradiso i Santi avrebbero iniziato a succhiare bastoncini di verde liquirizia, distribuiti a piene mani dalla Ida, mentre il buon Gesù avrebbe sicuramente chiuso non uno, ma tutti e due gli occhi, di fronte a questi peccatucci di gola.

Liborio Rinaldi

Nelle foto il traghetto e Liborio Rinaldi

 

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