BALDESAUT

BALDESAUT
“Papà, vorrei portare uno di questi giorni una mia amica a fare una passeggiata in montagna, ma non saprei dove. Mi piacerebbe un posto anche non troppo lontano, da non camminare troppo, ma tranquillo, quasi sperduto, che dia l’impressione d’essere fuori dal mondo. Non so se mi sono spiegato”.
Era una calda sera d’estate, avevamo appena finito di cenare e io, diciottenne, ero seduto con mio padre sul balconcino del secondo piano del palazzo Franzosini di piazza Teatro di Intra, ove abitavamo. Mia madre era in cucina a trafficare, noi, evento del tutto inusuale, con un bicchiere di vino in mano eravamo lì a tirare tardi osservando la luna sorgere dal Sasso di Ferro e illuminare di mille riflessi tutto lo specchio d’acqua davanti a Laveno.
Non conoscevo molto dei trascorsi giovanili di mio padre sui monti attorno ad Intra, in quanto per la verità non avevo mai avuto una particolare curiosità nel chiedere notizie particolareggiate del suo girovagare, né egli stesso m’aveva mai raccontato più di tanto, come se sull’argomento avesse un particolare riserbo, quasi una ritrosia. C’era stato talvolta solo qualche vago accenno da parte di mia madre, oltretutto con mezze frasi piuttosto vaghe e misteriose, quasi stizzite, ma tutto era poi finito lì, perché l’argomento non stimolava particolarmente la mia curiosità di ragazzo in quei beati anni in tutt’altre faccende affaccendato.
“Cosa mi consiglieresti?” – insistetti poi, vedendo che mio padre s’era fermato con il bicchiere a mezz’aria nel sentire quella domanda, con sul viso un’espressione tra lo stupito e il contrariato, come un contadino che scorge un estraneo entrare nel proprio campicello coltivato con cura gelosa e calpestare le coltivazioni. Forse era meglio così, se quel bicchiere non era giunto a destinazione, perché mio padre non beveva mai e aveva le gote molto accese, per non parlare degli occhi, che brillavano non certo solo per l’effetto dell’aria vespertina.
Mio padre, dopo quel momento d’incertezza, bevve l’ultimo sorso di vino e ristette ancora un attimo pensieroso. “Dipende da cosa intendi per montagna e cosa poi vuoi fare lì arrivato. Forse raccogliere margherite?“ – rispose con un tono di voce indecifrabile, cercando di apparire il più asettico possibile, quasi professorale. “E anche” – poi proseguì – “cosa non trascurabile, che razza di ragazza ti tiri dietro: una cittadina? Una pappetta? Una sgambona? Non so nulla di questa ragazza, non so nulla di nulla“ – proseguì con un’aria che voleva essere offesa per non essere stato aggiornato su quest’ultima mia vaga vicenda amorosa.
“Ma, non so, te l’ho detto… vorrei fare una bella passeggiata e andare in qualche posto strano, che sembri fuori dal mondo, con una ragazza in gamba, che non si spaventa delle fatiche” – gli risposi un poco imbarazzato.
L’andare a ritroso nel tempo è sempre operazione perigliosa e insidiosa; quando si scoperchia il pentolone delle memorie, si sa dove si incomincia, ma non dove si può finire. Il sentiero dei ricordi è accidentato e ricco di trappoloni, specie più che si avanza in esso con gli anni, lasciandosi alle spalle nostalgie e rimorsi che sembrano seppelliti per sempre e che invece non attendono altro che uno schiocco di dita per riemergere rinvigoriti e prepotenti, scuotendo le proprie certezze fin dalle fondamenta.
Mio padre stette un tempo che mi sembrò lunghissimo in silenzio, assorto, pensieroso: non osai interferire con il percorso che – lo intuivo chiaramente – stava facendo a ritroso negli anni. Poi all’improvviso tornò sulla terra e mi disse: “io da ragazzo sono andato per anni in Valgranda, sai bene dov’è, te ne ho parlato qualche volta, per me era quella la montagna, non ne conosco altre, anche perché raggiungevo l’attacco dei sentieri e delle mulattiere in bicicletta e quindi non potevo certo raggiungere in auto le Dolomiti o la valle d’Aosta, come i signoroni fanno oggi. Conoscevo tutti gli alpeggi di quella valle e tutti gli alpigiani che li caricavano con pochi capi di bestiame, strappando il foraggio a ripidi pascoli; talvolta, dopo aver fatto una lunga passeggiata, mi ospitavano per la notte in una delle loro baite, dividendo con me senza problema alcuno un magro piatto di polenta di castagne e un bicchiere di vino. Tra i tanti alpeggi che ho frequentato, ce n’era uno che mi attirava particolarmente: Baldesaut, tre ore di buon cammino da Cicogna, dopo Pogallo, su un sentiero che una volta proseguiva per salire alla famosa miniera d’oro, se mai è esistita davvero, per finire poi addirittura al rifugio di Bocchetta di Campo, ma quell’ultimo tratto non era per tutti. Quante volte ci sono salito… quante volte ho dormito lì. Aspetta un momento…”
Un poco traballante sulle gambe, spettacolo per me veramente unico e del tutto inusuale, mio padre s’alzò ed entrò in casa, per riuscirne poco dopo con in mano una busta che dava l’aria di non essere stata aperta da un bel po’ di tempo. Si risedette pesantemente sulla sedia e aprì il plico, estraendone delle gialle foto. “Quanti anni che non le guardo più… ma te ne voglio far vedere una sola” – mi disse, come temendo che facendomele vedere tutte si potessero sciupare o venisse svelato chissà quale segreto di stato. Così facendo sfogliava i lisi cartoncini tenendoli stretti a sé come se fossero stati un mazzo di carte, stando però ben attento a non farmi vedere il contenuto, anche se incuriosito allungavo inutilmente il collo. Mio padre sembrava proprio uno di quegli incalliti giocatori di poker, che si vedevano nei film americani ambientati sui battelli a vapore del Mississipi, alla ricerca dell’asso di cuori.
Mentre sfogliava le foto, mi disse: “ecco, Baldesaut è già fuori dal mondo, perché non vi passa mai nessuno, in quanto il sentiero ormai non porta più da nessuna parte: l’alpeggio è costituito solo da tre piccole baite poste su un minuscolo poggio prativo baciato dal sole. Io andrei lì, però ci vuole una ragazza tosta, tosta di gambe, ma soprattutto tosta dentro, che sappia vedere le cose con il
cuore prima ancora che con gli occhi, e non so se la tua signorina è fatta di questa pasta. Non ce ne sono mica più tante, ho l’impressione, in circolazione. Se questa ragazza del mistero che dici non è così, tanto vale che la porti a spasso sul lungo lago”.
“È molto che non torni in quell’alpeggio?” – chiesi a mio Padre per sviare il discorso dalle qualità
della mia signorina. Non volevo dire più di tanto di Carlina, la mia recente fiamma, anche perché non sapevo se fosse veramente tosta anche dentro, nel senso che diceva mio padre. Lo immaginavo o forse lo speravo.
“Eh sì” – rispose – “non ci torno da prima della guerra, in pratica da quando mi sono sposato, diciamo un bel venti cinque anni e più. Ho avuto qualche altra cosina da fare, sai, da allora, tra una storia e l’altra, che andarmene a spasso su e giù per i monti. Quelli della guerra non sono stati anni facili per nessuno e per me e tua madre meno che per tutti. Ti posso anche dire che tu sei nato un po’ per caso… in quei tempi, specie nel ’43, si pensava a tutto tranne che a fare figli; ma a volte, nelle buie notti disperate, quando sembrava che la guerra non sarebbe mai finita e che non ci sarebbe stato un domani, ci si lasciava un poco andare, ora sei grande, capisci bene ciò che intendo dire. Ma tornando alla Valgranda, tra l’altro ho sentito dire che adesso gli alpeggi sono quasi tutti abbandonati e che le baite stanno crollando una dopo l’altra, sommerse dalla vegetazione. Ma forse è meglio così, che la natura si riprenda ciò che è stato suo e pace amen” – e per dare più forza anche visiva all’amen mio padre bevve, come suggello del discorso inusualmente lungo per le sue abitudini, l’ultimo sorso residuo di vino dal bicchiere, che in pratica era già vuoto, spremendo anche l’ultima goccia.
“Eccola!” – poi disse all’improvviso dopo aver passato in rassegna ancora una volta tutte le foto, illuminandosi in viso. “Ero certo che c’era, anche se è un bel po’ che non guardavo dentro questa busta. Guarda bene: è questo il tipo di ragazza tosta dentro che intendevo prima, adesso forse mi puoi capire: figliolo, ti presento Emma” – e così dicendo, dopo averla osservata a lungo, con gli occhi che luccicavano sempre più, ma questa volta il vino era sicuramente incolpevole, mi porse la foto con una mano che tremava leggermente, non certo per il poco vino che aveva bevuto.
Presi la foto con due dita con un certo timore, come se stessi profanando qualcosa di sacro o quanto meno di misterioso, e vidi il ritratto d’una bella ragazza valgrandina, dal sorriso aperto, spavaldo e modesto ad un tempo. Sì, mi diede proprio l’impressione di essere una ragazza tosta dentro e capii, osservandola con cura, ciò che mio padre aveva voluto dire con quel termine.
Accanto alla ragazza, con un braccio sulle sue spalle, c’era un bel giovane, sorridente e solare, in abiti trasandati da montanaro, che però gli davano un’aria d’essere tosto dentro, anche lui. Da entrambi emanava una sensazione d’intesa felice. Guardai a lungo il ragazzo ritratto ed ebbi come un sussulto: in lui riconobbi senza equivoco alcuno mio padre. Alzai lo sguardo dalla foto e l’osservai sorpreso: teneva gli occhi chiusi, chissà dove stava vagando in quel momento con la testa, forse a Baldesaut, forse tra le braccia di quella ragazza conosciuta nei suoi vagabondaggi giovanili per gli alpeggi, ragazza poi probabilmente persa nei meandri misteriosi ed imprevedibili della vita.
“Cosa state confabulando voi due?” – chiese mia madre affacciandosi sull’uscio del balconcino, avendoci perso di vista da più di un’ora. E poi, vedendo che tenevamo in mano quelle foto, aggiunse rivolta a mio padre: “Oh, cielo, ancora quelle vecchie foto? Pensavo che ti fossi deciso a gettarle nella stufa, una buona volta. E adesso non stare a frastornare il nostro ragazzo con le tue montagne! Avrà altre cose ben più importanti da pensare nella vita”.
Rientrò in cucina ed io provai in quel momento un istintivo senso di ribellione verso mia madre, come se stesse perpetrando una grande ingiustizia, addirittura un’offesa verso quella bella ragazza così tosta dentro che chissà quanti anni prima e in che modo aveva incrociato la vita di mio padre, una ragazza che ora mi stava ammaliando con il suo sorriso. Provai un grande sentimento di simpatia e di solidarietà verso mio padre: in quel momento gli avrei gettato le braccia al collo e l’avrei baciato, se non fosse stato mio padre. Mi limitai a prendergli la fredda mano, che pendeva inerte, e a stringerla forte. La stretta non venne contraccambiata.
Guardai mio padre veramente forse per la prima volta, vagai tra i suoi numerosi capelli bianchi, osservai la fronte solcata da profonde rughe: stava invecchiando sotto i miei occhi, anzi, era già vecchio, e non ci avevo mai fatto caso. Dio, bisogna sempre che muoiano i genitori, per rendersi conto di quanto li si possa amare?
Mio padre aprì gli occhi rientrando dal suo viaggio che l’aveva visibilmente stancato; con un gesto mi chiese di riavere la foto della ragazza, che ripose insieme alle altre, con la lingua umettò la colla dei lembi della busta, quindi, sigillatola, mi porse il tutto dicendo: “tieni, io devo pur crescere prima o poi. Ha ragione tua madre, come sempre. Fanne ciò che vuoi, non voglio più vederle quelle foto, mi fanno troppo male, anzi, ti prego, bruciale, visto che io non ho avuto il coraggio di farlo in tutti questi anni, bruciale e disperdine le ceneri nel lago, che nessuno ne sappia più niente. Ma se non lo farai” – aggiunse poi dopo una breve pausa di silenzio – “sarò contento”.
E poi, alzandosi, concluse sottovoce, quasi a se stesso: “perché l’amore, anche se finisce, non muore mai”.
Liborio Rinaldi

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