FORSE NON SONO MAI ESISTITO

FORSE NON SONO MAI ESISTITO

Forse non sono mai esistito

Mi chiamo (e scusate se è poco) Liborio Francesco Giuseppe Maria. Nomen omen, si diceva una volta, e quindi già il mio nome piuttosto articolato, frutto di complesse elucubrazioni notturne parentali, avrebbe pur dovuto suggerirmi qualcosa e conseguentemente mettermi sull’allarme circa il mio tribolato e complesso futuro di umano. 

Mi battesimarono Liborio, come mio nonno ovviamente, con una piccola precisazione; poiché il nome del nonno paterno, Giuseppe, era stato doverosamente attribuito per motivi gerarchici a mio fratello maggiore nonché primogenito, a me, nella mia qualifica di secondogenito e quindi figlio cadetto, era toccato il nome del nonno materno, in base alla regola mai scritta ma consolidata ab urbe condita e anche da prima che le femmine valgono decisamente meno dei maschi, affermazione che oggi, anche solo a pensarla, si finisce esiliati a Sant’Elena. Ma allora i tempi erano quelli che erano. Per non creare liti in famiglia e gelosie tra i nonni, acclarato che il nome del nonno paterno dovesse toccare al primogenito nell’asse ereditario, a lui era stato attribuito come secondo nome anche quello del nonno materno Liborio e quindi a me specularmente avrebbe dovuto essere attributo come secondo nome quello del nonno paterno Giuseppe, in base ad una par conditio genetliaca molto rigida, ancorché non codificata, ma tramandata inflessibilmente di generazione in generazione ed ormai scolpita nelle eliche del dna della mia famiglia. Però qualche Santo, è proprio il caso di dire, visto ciò di cui mi accingo a parlare, ci mise non lo zampino, essendo quest’arto membro più luciferino che angelico, quanto forse l’aureola o addirittura un’aluccia, e le cose non andarono proprio così, di modo ché, prima ancora di nascere, sparigliai l’atavico giochino ed ebbi la responsabilità di sconquassare un rituale consolidato da più generazioni, che io e mio fratello, giunto il nostro turno di nominare i figli, interrompemmo, rischiando di essere diseredati e che i pochi beni di famiglia finissero in opere di bene. 

Infatti, proprio nei giorni prossimi al mio fausto parto, correva la prima settimana del maggio 1943 e per l’aria anche se ancora sotteraneamente già si percepivano i prodromi del 25 luglio, proprio come d’estate, quando si addensano all’improvviso neri nuvoloni forieri di tempesta, si ha la certezza che sicuramente la pioggia arriverà, anche se non si può prevedere se dopo un’ora o mezza giornata; dunque se era vero come era vero che quei giorni del sospirato avvento libertario, nonché più modestamente personale, avrebbero dovuto essere quelli in cui avrei fatto capolino in questa valle di lacrime, tutto ciò voleva pur dire, almeno per quello che la biologia insegna, che fui concepito più o meno in una notte attorno al ferragosto del 1942, proprio mentre nella torrida Africa gli scontri tra le pattuglie italiane e quelle inglesi si intensificavano, constatando gli italiani, irrisi dai colleghi tedeschi, come fosse penalizzante avere carri armati miopicamente progettati a torretta fissa, e quindi senza brandeggio di cannone, mentre di converso nella gelida Stalingrado fervevano i combattimenti tra russi e tedeschi, irrisi dagli italiani questi ultimi, perché per il gelo perdevano le gambe troppo strette dagli stivali inutilmente caldi; sopra a tutto ciò Pio XII riceveva serafico in Vaticano gli sposi novelli in una grande udienza particolare, che sarebbe stata l’ultima in quei frangenti bellici. Non posso ovviamente sapere quale di questi avvenimenti, uno più tragico dell’altro, possa essere stato l’ispiratore dell’evento che diede l’avvio alla mia vita, forse provocato molto più prosaicamente da un bicchiere di vino in più nel festeggiare, per quel poco che si poteva, quel terzo ferragosto di guerra, atto peraltro molto poco inusuale in mio padre e del tutto improbabile in mia madre, o forse più realisticamente l’evento fu scatenato da un momento di sconforto di entrambi i miei genitori per il buio avvenire che avanzava, sconvolgendo la loro tranquilla vita borghese; comunque sia, avvenne un qualcosa che ruppe l’intendimento dei miei genitori di non più procreare, essendo molto poco intenzionati in quegli anni bui ad offrire un nuovo maschietto, completo di fez e moschetto, al duce condottiero. 

Dunque, riepilogando, in quei giorni di Maggio, era una domenica mattino e nonostante il sanguinoso delirio mondiale in atto nei prati si ostinavano a sbocciare fiori, mia madre iniziò all’improvviso ad avere dolori lancinanti al ventre, che furono ovviamente scambiati per le doglie avanzanti, magari in anticipo di solo pochi giorni. Mia nonna costrinse la figlia a letto, mettendo sulla cucina economica a scaldare un bel pentolone d’acqua; mio padre inforcò la sua nera bicicletta Bianchi e pedalò veloce alla periferia della Sassonia, quartiere così chiamato perché rimasto a lungo ingombro di grandi sassi dopo che il torrente San Bernardino che lo confina circa cento anni prima era esondato sommergendolo, gettò dal letto la levatrice, che s’era appena coricata dopo un complicato parto notturno, la fece accomodare sulla canna della bicicletta e con pedalate ancora più robuste di quelle dell’andata tornò nella piazza Teatro, ove abitavamo al secondo piano di quel grande e signorile edificio ottocentesco che fungeva da cortina alla statua bronzea del re Galantuomo che si trovava proprio al centro della detta piazza, in piedi e non a cavallo, come sarebbe stato più appropriato ad un re condottiero, in quanto i soldi raccolti dai cittadini per realizzare l’opera furono appena sufficienti per quel modesto tributo d’amore. 

 

Come la levatrice diede uno sguardo a mia madre e le tastò con pochi gesti sapienti il ventre, capì subito che c’era ben poco da levare, in quanto i dolori sempre più forti non erano quelli premonitori di un parto non ancora così imminente, bensì quelli di un improvviso attacco di appendicite. Era infatti del tutto evidente che, pur incapace di intendere e di volere, io avevo deciso di complicarmi la vita prima ancora di nascere. Mio padre rinforcò la bicicletta, pedalò con ancor maggior lena fino all’ospedale cittadino di San Rocco oltre il torrente San Giovanni per allertare i medici e chiedere in soccorso una lettiga; così mia madre, con ovviamente il sottoscritto come inscindibile bagaglio appresso, fu trasportata in ospedale e lì venne ricoverata in pericolo di vita. 

Mia nonna, vedova da sempre, s’era fatta negli anni sempre più pia ed era entrata nell’ordine terziario di San Francesco nomandosi suor Chiara, scaricando sul patrono d’Italia tutto il notevole peso del suo amore inespresso; dopo avergli dedicato lunghe veglie di preghiere, pensò che fosse giunto il momento che il Santo le dovesse pur rendere almeno parte di tutto ciò in qualche modo; pur ritenendosi in credito di almeno un miracoluccio, promise in sovrannumero al Santo che se l’operazione di appendicectomia, che i medici avevano dichiarato improcrastinabile, a grande rischio per me che assistevo inconscio a tutto quel trambusto, e il parto stesso fossero proceduti nel migliore dei modi, il nascituro avrebbe dovuto chiamarsi Francesco o Francesca, non conoscendosi allora ovviamente ancora il sesso del pargoletto, cosa che non era peraltro nota nemmeno al diretto interessato e cioè a me, in quanto certe sottigliezze le avrei imparate bel al di là negli anni in modo sommario e confuso dai soliti compagni di scuola ben informati, approfondendo l’argomento in un secondo momento con diligente pratica personale, essendo tali discorsi in casa del tutto banditi, come cosa sconveniente solo ad essere sfiorati.

 

Mio padre nulla sapeva di tali intendimenti e sacre promesse fatte dalla suocera sulla testa del suo figlioletto prima ancora che lo stesso prendesse forma visibile, per cui, operazione appendicolare andata a buon fine e parto seguito a ruota di lì a pochi giorni in modo altrettanto felice, quando si seppe al momento del battesimo, che doveva essere eseguito in ospedale a tambur battente per non correre il rischio di farmi precipitare nel limbo degli innocenti ma comunque colpevoli per via di Eva e della famosa mela nel caso avessi deciso di tirare le cuoia nei primi dì di vita, evento allora per nulla improbabile, rimase esterrefatto che potesse essere modificata per la banalità di un voto la tradizione secolare nell’attribuzione del nome ai discendenti. Se la Lucia manzoniana fu sciolta dal suo voto di castità, solennemente pronunciato in un momento di costrizione del suo libero volere, voto quindi ecclesiasticamente privo di valore, anche mia nonna avrebbe alla fine potuto ben seguire tale via liberatoria, aiutata in ciò dal suo confessore francescano, che non avrebbe avuto altro da fare che seguire l’esempio del suo predecessore e ben più autorevole fra’ Cristoforo. 

 

È ben noto che l’Italia è la terra dei compromessi ed allora per uscire dall’impasse fu deciso che il nome Francesco venisse inserito tra quelli di Liborio e di Giuseppe, con buona pace dei nonni e sperando che il Poverello d’Assisi non se la prendesse troppo a male, rifacendosela eventualmente alla fine solo su mia nonna, trasformata all’improvviso in spergiura da artefice taumaturgica dell’esito felice di un parto piuttosto complicato e a rischio; ma è vox populi che la gente è strana e prima ti odia, poi ti ama, ma molto più spesso capita l’incontrario. 

Per non correre però il rischio di litigi tra Santi, mi si diede poi anche il nome conclusivo di Maria, sperando che la Madre divina potesse fare da paciere nel caso di dispute tra i suoi sottoposti e fu così che alla fine mi chiamarono Liborio Francesco Giuseppe Maria, nome talmente importante ed ingombrante che venne immediatamente abbreviato per ovvi motivi di praticità in Pupi, nomignolo che mi faceva arrossire ogni volta che veniva usato in pubblico o davanti ai miei amichetti, per non parlare poi delle amichette, vezzeggiativo che poi fortunatamente nel trascorrere del tempo si perse, sostituito per anni da Franco, in quanto spesso tanto per fare confusione il ramo materno dei parenti chiamava Liborio mio fratello Giuseppe, e poi finalmente da Libo, abbreviazione conclusiva di ben quattro nomi felicemente inventato dalle tedescotte che avevo l’avventura di conoscere sulle spiagge estive di Cannobio e che si divertivano a chiamarmi Lieber Libo, con una piacevole assonanza fonica, per fermarci solo a questo.

 

Dunque, in un modo o nell’altro nacqui a Intra, come continuava a ricordarmi mio padre, anche se già allora Intra non esisteva più, disciolta da qualche anno con altre frazioni più o meno grandi nel grande anonimo crogiolo di Verbania, invenzione d’imperio mussoliniano per accorpare in proporzioni più dignitose paesi e paeselli, operazione benefica per le casse comunali già allora esauste, ma che mai più riuscì nei decenni ai governi democratici, troppo deboli di fronte a campanilismi, particolarismi ed ismi d’ogni tipo. 

 

Quando alla domanda: dove sei nato? io rispondevo convinto ed in buona fede “Intra”, la buona maestra di prima elementare Angela Pizzigoni sottolineava il nome scritto con grafia incerta dopo un anno di aste e amenità del genere in blu, tirando una bella linea su Intra e scrivendoci sopra Verbania; allora mio padre si scomodava in colloquio con l’insegnante per contestare tale sottolineatura, ribadendo la veridicità del mio luogo natale, creando in me un notevole conflitto d’autorità tra la maestra che ha sempre ragione e il padre che ne ha ancora di più, ma devo ammettere arrossendo senza ritegno che ancora oggi in me è la teoria di mio padre, ad essere vincente. 

 

Chiamato dunque con un nome che non era il mio, nato in una città che non esisteva più, il minimo che potessi fare era abitare in piazza Fiumetta, poi chiamata Vittorio Emanuele, fino a quanto il padre degli italiani, come sarcasticamente veniva chiamato il re per via dei suoi soggiorni in casolari di caccia valdostanti allietati da robuste fanciulle valligiane non iniziò la sua peregrinazione per Intra,  poi piazza Garibaldi, prima che anche la granitica statua dell’eroe dei due mondi che le aveva dato il nome venisse sloggiata da lì, poi la piazza si intitolò agli eroi risorgimentali Fratelli Bandiera, per essere poi chiamata ben presto come il ravennate don Minzoni, ritenendo questa dedica più consone al clima resistenziale degli anni sessanta del secolo scorso, piazza che però per tutti gli intresi degni di questo nome restò e resterà per sempre piazza Teatro, nome che ufficialmente la piazza non ebbe mai, riproduzione in miniatura del teatro alla Scala di Milano che lì sorgeva dal 1849, e così continua e continuerà in saecula saeculorum a chiamarsi anche se il detto teatro fu abbattuto dai picconi vogliosi di chi aveva deciso di abbellire le nostre città facendo scomparire con diligenza tutte le cose belle. 

Quindi, alla fine di questa lunga tiritera, posso ben dire con malcelato orgoglio di essere chiamato con un nome che non ho e di essere nato in una città che non c’era, in una piazza che non esisteva. 

 

Non mi stupirei se non fossi mai esistito neppure io. 

 

Liborio Rinaldi

 

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