IL CAMPANELLO

IL CAMPANELLO

IL CAMPANELLO
Non mi sono mai piaciuti i soprannomi, per cui quel mio amico, che tutti a Intra chiamavano Trepadri, io continuavo a chiamarlo Matteo. Eravamo ragazzotti e avevamo steso i sacchi a pelo sul pavimento di pietra della cappelletta del pizzo Marona, poi, dopo una cena frugale, ci eravamo seduti a fumare una sigaretta all’aperto, sui gradini, con davanti la notte immensa bucata dalle stelle e dalle luci di Intra, della pianura e forse del mondo intero. La luna splendeva in alto, ad origliare: che grande confessionale, la notte, specie in montagna. Senza un preciso motivo, Matteo iniziò a parlare, guardando fisso davanti a sé, come per sgravarsi d’un peso: “Tutti, tranne te, mi chiamano Trepadri, lo so benissimo… forse è meglio che tu sappia perché”.

1942
Il trillo del campanello d’ingresso fu così leggero, che Clara, mia madre, non lo sentì nemmeno. Il cielo autunnale delle sei del mattino era ancora praticamente buio e la giovane si stava lavando in cucina, in quanto aveva visto che il gabinetto sul ballatoio era occupato, come del resto sempre a quell’ora, quando tutti i vicini si alzavano per andare al lavoro, e quindi il rumore dell’acqua che scorreva nel lavandino di zinco poteva aver mascherato il trillo del campanello. Fra poco sarebbe iniziato il suo turno alla Restellini, industria di meccanica pesante: la manodopera era tutta femminile o di persone anziane, essendo stati i giovani disseminati sui vari fronti di guerra. Mentre si ravvivava i capelli davanti allo specchio della credenza della cucina, Clara sentì il secondo e più lungo squillo di campanello. Sussultò, anche perché s’era un poco persa ad osservarsi: aveva solo venticinque anni ma vedeva riflesso solo un viso reso triste e senza futuro da quei tre anni di guerra. Clara andò ad aprire la porta e contro un cielo che si stava rapidamente rischiarando si stagliò la sagoma massiccia del maresciallo dei carabinieri, che, vedendola, impacciato la salutò portando la mano alla visiera e dicendole confidenzialmente: “Ciao, Claretta”, perché la conosceva fin da bambina. In quella stagione di guerra si conoscevano ancora tutti a Intra, che era ancora una piccola cittadina che aveva paura di crescere e che nel giro di pochi anni avrebbe disperso quelle tradizioni di piccolo borgo, che allora custodiva ancora così gelosamente. “Ciao, Claretta” – ripeté il maresciallo, continuando a girare e rigirare nervosamente un foglietto giallo che aveva in mano. Poi proseguì: “ho una brutta notizia per te… veramente molto, molto brutta…” “Ssst” – rispose Clara mettendosi infantilmente un dito tra naso e labbra. “Non mi dica niente, maresciallo, sapevo che prima o poi sarebbe accaduto anche a me. Mi dica solo: dove è successo?” “A Tobruch, il mese scorso. È arrivato il telegramma solo ieri sera, ma ho preferito farti passare la notte tranquilla” e così dicendo le prese le due mani, gelide piccole mani, e le strinse affettuosamente e paternamente nelle sue e poi le lasciò ed in una di esse era rimasto il telegramma del ministero della guerra. Il maresciallo si mise sull’attenti, sbatté i tacchi e salutò militarmente, in una sola volta, la neo-vedova di guerra ed il marito, l’eroico capitano Marco Valenti caduto con migliaia di altri commilitoni in una delle tante battaglie combattute all’ultimo uomo attorno a Tobruch, quindi si allontanò, seguito da un giovane appuntato, che per tutto il tempo s’era tenuto silenzioso in disparte, pensando a com’era stato fortunato ad essere figlio d’un gerarca di Novara. Clara gettò il telegramma sul tavolo senza neppure aprirlo. Tornò, senza parole e vuota di pensieri, davanti allo specchio e finì di pettinarsi con esasperata lentezza; poi uscì come tutti gli altri giorni per andare al lavoro. Era grigio il cielo, grigio come il suo cuore, avvizzito come una foglia che a dicembre ostinatamente insiste a non cadere.

1945
Clara era davanti allo specchio della credenza e si stava ravvivando i capelli; proprio mentre stava passandosi sulle labbra un filo di rossetto, sussultò al trillo, leggero e breve, del campanello della porta d’ingresso. Non poté fare a meno di riandare con il pensiero all’ultima volta che un uomo aveva suonato quel campanello, ricordando quella triste mattina d’autunno di tre anni prima, quando il maresciallo le aveva portato la notizia della morte del marito. Ma ora all’ingresso ad aspettarla c’era un altro uomo, il suo caporeparto, con il quale era entrata poco per volta in confidenza: una parola tira l’altra, sul lavoro o nell’intervallo per il pasto consumato sul muretto di cinta della fabbrica, mangiando quel poco che si portavano da casa in una gavetta; dopo molte insistenze da parte del giovane uomo, quel sabato sera alla fine Clara aveva accettato d’uscire con lui, rompendo così una solitudine di anni, che stava uccidendo la sua gioventù. Era primavera ed il lago Maggiore si stava stirando rumorosamente, destandosi tra mille colori e profumi dalle pigre sonnolenze invernali. Anche Clara si sentiva ridestare a quei primi tepori primaverili. Mirko la prese allegro sottobraccio per aiutarla a scendere le strette scale della sua casa, quindi la issò, afferrandola confidenzialmente per la vita, sulla canna della bicicletta con la quale era andato a prenderla. S’avviarono lungo la litoranea, verso Pallanza. Le macchine erano rare e per strada c’era un gran via vai di biciclette, di carri trainati da cavalli e di gruppetti di persone: anche la vita, seppure a fatica, cercava di risvegliarsi, dopo il tragico forzato letargo della guerra. Clara guardava l’immensità del lago aprirsi davanti a lei e l’aria frizzante l’avvolgeva tutta, scompigliando i suoi capelli, che finivano sul viso di Mirko che brontolava scherzoso. Lei si appoggiava a lui, che sentiva con un brivido la schiena della donna contro di sé. Clara e Mirko mangiarono a Fondotoce in una trattoria sul vecchio canale che unisce il lago Maggiore al più piccolo lago di Mergozzo, spensierati e giovani, riuscendo a ridere e a scherzare e a mettersi alle spalle tutti i dolori ed i lutti della recente guerra. Lui la riempiva di attenzioni e di complimenti, che lei accettava di buon grado; fecero un brindisi con un bicchiere pieno di rosso vino e si scambiarono un rapido bacio, toccandosi appena le labbra, come per caso, ma quando gli occhi si incontrarono, mentre entrambi arrossivano, si dissero tutto senza pronunciare neppure una parola. Poi fu una grande corsa in bicicletta fino a Intra, fino alla piazza Castello dove Clara abitava in una vecchia casa a ringhiera, e mentre salivano lungo le ripide scale che portavano al secondo piano sembrava quasi che Mirko, con il cuore che batteva impazzito, inseguisse Clara che fuggiva da lui, ma in realtà fuggivano entrambi il loro passato e cercarono di riprendersi con furia ed avidità gli anni di gioventù, che un destino ostile aveva loro sottratto.
L’alba della domenica mattina li sorprese abbracciati e quell’abbraccio esprimeva forza e delicatezza al tempo stesso. La luce del sole, che entrava festosa dalla finestra che era rimasta socchiusa, li svegliò un poco timidi ed imbarazzati, ma poi, eccitati da questa novità, si strinsero nuovamente in un abbraccio ancora più appassionato. Veramente gli anni della guerra sembravano essere stati gettati definitivamente alle loro spalle. Avrebbero desiderato non sciogliersi mai da quell’abbraccio, quasi temendo che, staccatisi, non sarebbero più riusciti a ritrovare la strada che aveva unito le loro vite, anche se ciò era avvenuto solo per una notte. Ma, anche se a malincuore, dovettero pur decidersi a farlo, perché Mirko quel giorno festivo iniziava a lavorare alle dieci, in quanto le fabbriche avevano ripreso a girare a pieno ritmo: c’era una nazione intera da ricostruire e tutti erano chiamati a quest’impresa. Mirko si alzò e, dopo un ultimo bacio, si allontanò da Clara ed uscì, con la promessa di rivederla il giorno dopo sul lavoro ed iniziare a parlare del loro futuro. A Clara inconsciamente venne in mente la scena di qualche anno prima, quando anche il marito, subito dopo il frugale pranzo di nozze, uscì di casa perché lo attendeva la tradotta che l’avrebbe portato al fronte: poche lettere e poi più nulla.

1945 più un giorno
Clara sentì un trillo alla porta, forse era Mirko che aveva dimenticato qualcosa: prese una vestaglia, l’indossò e andò verso l’uscio, aprendolo. No, non era Mirko che apparve nello squarcio della porta: era il maresciallo dei carabinieri, con in mano un altro telegramma ed un’aria ancora più impacciata di quella di tre anni prima. Ma mentre allora Clara aveva intuito subito il motivo della visita, questa volta proprio non riusciva ad immaginare che cosa il militare potesse ancora chiedere alla sua vita. “Claretta” – disse il maresciallo salutandola militarmente portando la mano sulla visiera – “Claretta, è arrivato ieri sera questo telegramma per te. Sono venuto a portartelo subito, ma ho visto dalla finestra socchiusa che non eri sola e non ho osato importunarti: sono tornato e… insomma, ecco il telegramma, saprai ben tu, se è male o se è bene”. Claretta aveva guardato molto perplessa quel nuovo telegramma del ministero della guerra che il maresciallo teneva in mano ed ascoltava le sue parole, ma non riusciva a dare ad esse un nesso logico: l’unica cosa che iniziava ad intuire era che la guerra, che era finita per tutti, forse per lei stava ricominciando. “Insomma” – proseguì il maresciallo prendendo il coraggio a due mani, vedendo che Clara non si decideva a leggere il telegramma – “Marco non era morto a Tobruch, c’era stato uno scambio di persone in quel gran macello; Marco era stato fatto prigioniero dagli inglesi e mandato in India in un campo di concentramento ed ora è stato liberato: settimana scorsa era a Genova ed oggi arriva a Fondotoce e stasera è qui a Intra. A casa. Da te, Claretta. Dopo la guerra. Dopo la prigionia”. Il maresciallo così dicendo le prese le due mani, gelide piccole mani, e le strinse affettuosamente nelle sue e poi le lasciò ed in una di esse c’era il telegramma del ministero, che bruciava sul palmo della mano della giovane come un carbone ardente. Il maresciallo si mise sull’attenti, sbatté i tacchi e salutò militarmente, in una sola volta, la vedova d’una notte d’amore ed il marito, il capitano Marco Valenti non più eroicamente caduto nella battaglia di Tobruch; quindi si allontanò, seguito dall’appuntato, che per tutto il tempo s’era tenuto in disparte senza parlare, pensando alla fortuna d’essere stato imboscato durante la guerra . Clara strinse il pugno, appallottolando il telegramma che le era rimasto in mano e gettandolo sul tavolo, quindi tornò davanti allo specchio, ove finì di pettinarsi, guardando ancora una volta quel viso, all’improvviso tornato spento d’ogni luce. La foglia avvizzita non ce l’aveva fatta più a resistere sul ramo ed era caduta.
Questa volta il trillo del campanello della porta d’ingresso non sorprese Clara, perché la giovane era tutto il giorno che attendeva quel momento. La mattina, congedatosi il maresciallo, s’era rivestita con calma, s’era ravvivati i capelli e passato anche un filo di rossetto sulle labbra, quindi s’era seduta su una poltroncina in cucina, di fronte alla porta dell’ingresso, e non s’era più mossa da lì. Cercava di non pensare, perché si rifiutava di riandare con il pensiero alla notte prima, che sembrava ormai lontana anni. Così come sembrava perdersi in una buia notte, dalla quale era misteriosamente riemersa, anche l’immagine del marito; si sforzava di ricordarsi le fattezze del coniuge, ma doveva andare con il pensiero a cinque anni prima, a quell’unico giorno di matrimonio prima che il suo giovane sposo, senza nemmeno poter assaporare una notte d’amore, venisse sbalestrato su tutti i peggiori fronti. Ed ora sarebbe trillato il campanello e lui sarebbe ritornato a casa, nella sua, loro, casa.  Quando il campanello trillò, cercò di ripetere il discorso che aveva preparato per ore e con il quale avrebbe spiegato al marito, cercando di non ferirlo, la nuova situazione che s’era venuta a creare ed era certa che Marco, anche se a malincuore, avrebbe capito le sue ragioni e avrebbero così cercato assieme una soluzione. “Avanti” – disse con un filo di voce e la porta, lentissimamente, s’aprì. La stanza era semibuia nel crepuscolo serale e sulla porta apparve il militare. Clara strizzò gli occhi per vederlo meglio e la prima impressione che ne ricavò fu di una persona straordinariamente magra e provò istintivamente una stretta al cuore. Anni di terribile guerra, poi gli stenti della prigionia, una gioventù lastricata di morti e di dolori, ecco cos’erano stati gli ultimi anni di quell’uomo che avanzava titubante ed un poco vacillante sulle gambe verso di lei: lei che forse era stato l’unico motivo per cui suo marito era riuscito a sopravvivere a prove così terribili, trovando in questo momento del ritorno a casa la motivazione per superare ogni prova; a questi pensieri, due lacrime rigarono il viso di Clara. “Claretta” – disse solo il redivivo con voce piuttosto roca e le si avvicinò ondeggiando leggermente, come se fosse ubriaco, malfermo sui piedi. Il viso era incorniciato da una folta barba, proprio come quella che si vedeva sui visi dei soldati indiani talvolta raffigurati sulle tavole a colori della Domenica del Corriere. Una cicatrice attraversava tutta la fronte: una ferita, di cui il marito, certo per non turbarla, non le aveva mai scritto nelle poche lettere inviate. “Claretta” – bisbigliò di nuovo il militare facendosi ancora più vicino ed abbracciandola stretta, affondando il viso barbuto sulla sua spalla – “sono cinque anni che non vado con una donna…” e poi non disse altro, perché iniziò a strapparle di dosso gli abiti con violenza, come se fosse in battaglia, come se fosse ancora nel deserto africano a combattere gli inglesi, ma di fronte a lui c’era solo una povera ragazza smarrita e confusa. Clara non seppe più né cosa dire né cosa fare e pensò solo che sulla terra non poteva esistere un’altra persona più disgraziata di lei.

1945 più due giorni
Il campanello dovette trillare a lungo, prima che Clara lo sentisse e potesse svegliarsi. Non capì subito dove si trovasse, perché in quella notte appena trascorsa il reduce aveva voluto recuperare anni d’astinenza e lei si sentiva veramente distrutta e stanchissima. Ma ora il campanello era insistente e lei allungò la mano al suo fianco mormorando “Mirko” e poi, arrossendo e riprendendosi subito, “Marco”, ma al suo fianco non v’era né Mirko, né Marco, non v’era nessuno. Guardò attorno per la stanza e non vide neppure gli abiti del marito, che chissà per quale motivo s’era allontanato. Si alzò a fatica, rassettò il letto alla belle e meglio, indossò la vestaglia e s’avviò stancamente verso la porta, perplessa e preoccupata, ma, davanti all’uscio della camera da letto, vide, immobile, come pietrificato, un uomo che la contemplava con gli occhi sbarrati ed un poco spiritati: era entrato in silenzio in casa, attraversando sicuro la cucina e dirigendosi direttamente verso la camera da letto. “Claretta” – disse l’uomo – “scusami se sono entrato così in casa, senza aspettare che mi venissi ad aprire; mi rendo conto che ti ho spaventato, ma non rispondevi e l’uscio era socchiuso… ed io ero così impaziente di rivederti… Claretta, Claretta mia… dopo tanti anni… quante volte ho disperato che potesse giungere questo momento di felicità… e mi dicevo: Marco, resisti, devi sopravvivere per lei”. Anche dopo tanti anni Clara aveva riconosciuto, senza ombra di dubbio, la voce del marito ed il suo modo di parlare, anche se non ne riconosceva perfettamente le fattezze. Le girò la testa e si sedette sul letto, senza dire una sola parola. Il marito le si accostò, si sedette anche lui sul letto, le passò un braccio sulla spalla e l’attirò a sé, un poco rudemente. “Ben vedo la sorpresa che t’ho provocato e proprio per questo ieri ho mandato avanti il mio attendente, fidato compagno di guerra e di prigionia, con il quale ho diviso anni di dolori e di lutti; l’ho pregato di un ultimo piacere, prima di scioglierlo dagli obblighi verso di me; gli ho chiesto che ti preannunciasse il mio arrivo di questa mattina e ti preparasse così a questo momento; questo tuo smarrimento nel rivedermi, mi fuga ogni dubbio che avevo serbato in me, circa i sentimenti che ancora avresti potuto provare nei miei confronti, dopo tanti anni di lontananza e di mancanza di notizie, che avrebbero ben potuto giustificare, in qualche donna meno forte di te, un qualche raffreddamento nei tuoi sentimenti: i miei, siine sicura e certa, sono sempre ancora quelli di allora, del giorno beato dell’altare che consacrò quel nostro unico giorno di matrimonio, con il quale ti volli legare ma al tempo stesso, sapendo di dover partire, anche rispettare”. Le slacciò la vestaglia, con mano delicata e tremante ad un tempo, e Clara, completamente vuota di forze e d’idee, statua di ghiaccio, non seppe più né cosa dire né cosa fare e pensò solo che sulla terra non poteva esistere un’altra ragazza più disgraziata di lei.

“Ecco!” – concluse il mio amico Matteo – “Il capo reparto, saputa la novità, emigrò in Germania; l’attendente svanì nel nulla e il Capitano fu subito ricoverato in ospedale per una malattia contratta in prigionia e dopo poco morì. Io fui concepito in una di quelle tre notti, le uniche notti d’amore di mia madre, ma non so in quale, forse in tutte e tre, chissà, ed è per questo che tutti mi chiamano Trepadri”.
La luna era tramontata dietro il Sasso di Ferro, non aveva retto nemmeno lei a questa storia.

 

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