Il vecchio cacciatore e la giovane cerbiatta
C’era una volta un vecchio cacciatore.
In un’alba di tanti anni fa aprì la finestra della sua capanna nel bosco, persa nella più remota valle della ancora sconosciuta Val Grande, e fu subito abbagliato dalla luce del sole, che gli trafisse gli occhi stanchi.
Era piovuto a dirotto quella notte.
Il temporale, perdendosi pigramente nelle valli che si insinuavano sotto il Pedum, aveva rumoreggiato a lungo in modo indistinto, proprio come un vecchio che brontola e alla fine nemmeno si ricorda più il motivo di tale sua scontentezza, se non quella insopprimibile per l’età che avanza implacabile su ruote di ferro che rotolano su binari che si perdono nel nulla, senza toccare più stazioni a cui sostare.
Erano anni ormai che il vecchio cacciatore s’era ritirato a vivere in quella capanna nel bosco, divenendo ogni giorno sempre più solitario, prigioniero di una prigione costruita con le sue stesse mani. Nessuna andava a trovarlo, nessuno si ricordava nemmeno più dove abitasse.
Ma quel mattino, aperta la finestra, permise ai raggi del sole di scaldargli la pelle. Quel mattino si sentiva dentro al cuore un’irrequietezza nuova ed antica ad un tempo.
Sorridendo e stupendosi egli stesso di un inusuale sorriso che era affiorato sulle sue aride inutili labbra, il vecchio cacciatore andò nella stanza ove consumava i suoi veloci e frugali pasti.
Si tramanda dunque che il vecchio cacciatore s’avvicinasse alla parete della grande stanza e staccasse dalla rastrelliera il suo fucile, che giaceva lì da anni, ricordo dimenticato di scorrerie giovanili, e quindi inutile come tutti i ricordi, che quando affiorano servono solo per acuire la nostalgia del passato.
“Oggi voglio proprio andare a caccia”, disse tra sé e sé sorprendendosi egli stesso di questo improvviso desiderio di voler fare qualcosa.
Preso un soffice panno, il vecchio cacciatore si sedette su una panca di legno con il fucile sulle ginocchia ed iniziò a lucidarlo lentamente, quasi con tenerezza, come se stesse accarezzando il tornito braccio di un amore perduto.
Come ritenne che il suo fucile fosse ritornata l’arma dei tempi migliori, il vecchio cacciatore l’alzò al cielo distendendo entrambe le braccia doloranti, come seguendo un antico rituale propiziatorio: un raggio di sole colpì il fucile e la lucida canna scintillò.
Fischiettava allegro ora il vecchio cacciatore andando per il bosco, come se fosse in attesa d’una buona notizia che gli sembrava aleggiare nell’aria. Gli abitanti del bosco, nascosti dietro al fitto dei rami, lo osservavano un poco impauriti e stupefatti: non erano più abituati ad incontrarlo, ma soprattutto a vederlo così allegro.
C’era una volta dunque questo vecchio cacciatore che avanzava nel bosco su una pista inusuale; si apriva la strada spostando con una mano i rami degli alberi che si protendevano verso di lui, incurante della fatica, con rinnovato giovanile slancio, mentre con l’altra serrava il fucile, già con il colpo in canna, pronto al fuoco.
Uscì alla fine dal groviglio del bosco, sbucando su una radura, e il suo sottile fiuto, che negli anni non era scemato per nulla, gli fece percepire che di certo una preda doveva stazionare nei paraggi. Arretrò con un agile balzo, che si stupì egli stesso di poter compiere ancora, e rientrò nella boscaglia, gli occhi fissi sulla radura, il fucile imbracciato e pronto a sparare. Ed infatti vide la preda apparire all’improvviso: forse stava per accadere quel qualcosa di indistinto che s’aspettava fin dal mattino.
C’era una volta una giovane cerbiatta che stava entrando in quella radura con passo leggero, talmente lieve da non lasciare nemmeno orme sulla verde erba, il suo incedere era così aggraziato da non far nemmeno cadere le gocce di rugiada dagli steli dei fiori. La pelle della cerbiatta era lucida, forse per la pioggia della notte che aveva reso il suo mantello ancora più bello; aveva due grandi occhi, splendenti come stelle, che scrutavano tutt’attorno curiosi.
Dice la leggenda che quella volta i sensi acuti della giovane cerbiatta non l’avevano messa in guardia a sufficienza, tanto delicato era stato l’incedere del cacciatore, troppo felpati i suoi passi per essere uditi, troppo prudente il suo appostarsi per destare sospetto.
La cerbiatta si portò al centro della radura. Il colpo partì, come tuono in un cielo sereno, improvviso ed inaspettato: il vecchio cacciatore non aveva avuto pietà della giovane cerbiatta ed aveva sparato appena l’aveva scorta.
La cerbiatta stramazzò a terra, ma non era morta, era solo ferita: il vecchio cacciatore posò il fucile a terra, estrasse dalla fodera un lungo coltello ed entrò nella radura per finire la cerbiatta, prima con passo spavaldo, poi, mano a mano che s’avvicinava a lei e i loro occhi si incrociavano, avanzando sempre più incerto.
Intanto erano accorsi scoiattoli, uccelli d’ogni colore; gli abitanti del bosco, dapprima fuggiti per il rumore dello sparo, rassicurati poi dal silenzio che ne era seguito, si erano nuovamente posati a frotte sui rami tutt’attorno: muti testimoni di tale delitto, cento occhi osservavano inorriditi il vecchio cacciatore, che ora s’era inginocchiato accanto alla cerbiatta ed aveva alzato il coltello per abbassarlo verso il di lei giovane petto, per strapparne il cuore con un deciso fendente. Gli scoiattoli e gli uccelli dai mille colori trattennero il fiato tremando e impallidendo agghiacciati dall’orrore.
Dicono che la cerbiatta guardasse fisso negli occhi il vecchio cacciatore che brandiva in alto il coltello assassino, e che gli dicesse: “Mia gioia, gioia del mio cuore, finalmente ti sei accorto di me, finalmente ti ho incontrato. Quante notti ho passato accanto alla porta della tua capanna, per ascoltare il tuo respiro mentre dormivi. Gioia della mia anima, quante volte ti ho seguita leggera da lontano, mentre giravi solitario per il bosco. Ed ora finalmente sei qui, accanto a me, uccidimi, strappami questo cuore che già sanguina per te, sarò felice di morire per mano tua e porrò così fine a questa mia sofferenza”.
C’erano una volta una giovane cerbiatta ed un vecchio cacciatore: questi, mentre udiva quelle parole inaspettate, parole che risuonavano come musica nelle sue orecchie indurite dai troppi silenzi, perché sono questi e non le parole a rendere sordi, aveva ancora il coltello alzato: continuando a fissare gli occhi della cerbiatta, si perdeva completamente in essi.
Forse quel viso era quello che tante volte aveva trasognato nel dormiveglia? Forse era questa la cerbiatta che aveva immaginato, sognato, sperato di incontrare un’ultima volta sulla sua vita ormai giunta all’ultima stagione?
Ma ormai la sua mano aveva preso uno slancio deciso, e il vecchio cacciatore, privo di volontà e immerso nei suoi pensieri, non riuscì a fermarla e il pugnale si infisse con precisione sul bianco petto della cerbiatta, proprio tra due piccoli morbidi rosa capezzoli ancora vergini di latte.
Come il pugnale penetrò nelle tenere carni della cerbiatta, il vecchio cacciatore rimase sgomento, chiedendosi come fosse possibile destarsi da un sogno appena sognato e per propria mano. Lui ora stringeva in pugno il cuore sanguinante della cerbiatta. Che sensazione tremenda contenere un’intera vita in una sola mano ed essere il padrone di ricordi, sogni, speranze, gemiti d’amore.
Fu allora che il vecchio cacciatore prese una decisione. Si confisse a sua volta il pugnale nel proprio petto, si strappò il cuore e lo mise nel petto della cerbiatta e nel proprio mise quello della cerbiatta che ancora teneva in mano.
Nella sua capanna nel bosco il vecchio cacciatore da quel giorno visse con in petto un cuore giovane: girava allegro e spensierato per mille sentieri, che fino al giorno prima gli erano sembrati estranei ed ostili. Ovunque andasse, divenuta la sua ombra, lo seguiva la giovane cerbiatta, che aveva ora in petto un vecchio esperto cuore, per cui non si sentiva più di correre affannata e senza requie per mille strade che portavano in pericolose radure, ma sapeva scegliere con sicurezza i sentieri su cui muoversi.
Non c’era una volta, ma c’è tuttora la saga del bosco, tramandata di generazione in generazione da scoiattoli e uccelli colorati, che narra che il vecchio cacciatore dal cuore giovane visse a lungo con la giovane cerbiatta dal cuore antico, rubando alla vita ancora molti felici giorni d’amore. Quando infine, come sempre succede anche nelle fiabe più belle, il vecchio cacciatore morì, la cerbiatta pianse e ripianse, ma poi, con la saggezza che ora aveva acquisito grazie al cuore antico, in una notte di primavera asciugò le lacrime e decise di scegliere un altro cacciatore con il quale trascorrere il resto della vita.
Però dicono che nell’amoroso petto della giovane cerbiatta continuò a battere per sempre il cuore antico del vecchio cacciatore, che nessuno riuscì mai a strapparle.
Questo credetemi, mi raccontò in un bivacco notturno sotto un cielo stellato da impazzire un vecchio signore, ormai giunto alla fine dei suoi anni, anche se il suo cuore gridava ancora di gioventù.
Liborio Rinaldi