LA MADONNA DEI SETTE DOLORI

LA MADONNA DEI SETTE DOLORI

La Madonna dei sette dolori

Saliva con il cuore in gola la scalinata che portava al grande corridoio del primo piano del collegio Santa Maria di Pallanza, ove venivano esposti i tabelloni con i risultati dell’esame finale; teneva gli occhi bassi, perché non voleva incrociare quelli di un qualche compagno che già avesse letto i risultati e che gli svelasse così con un sorriso ironico o di invidia o di compassione l’esito che s’apprestava a scoprire, a coronamento di faticosi anni durante i quali si era impegnato a fondo nello studio, trascurando il bar dello Sportivo di piazza Teatro di Intra, ove si radunavano per ore i suoi compagni per giocare a biliardo, avendo come posta il Martini rosso dell’aperitivo serale, fantasticando su improbabili avventure amorose che cercavano di far credere a vicenda che fossero loro capitate.

C’era un gran via vai di studenti, il chiasso era notevole, specie tra i ragazzi che avevano strappato per il rotto della cuffia un risultato magari insperato. I miracolati scendevano di corsa per le scale, saltando i gradini a due a due, progettando una fantastica estate spensierata e pregustando avventure d’ogni genere, senza curarsi per nulla di altri loro colleghi che, mogi e a testa bassa, pensavano a un anno da ripetere o, sventura quasi peggiore, ad un’estate da trascorrere ancora chini sui libri per riparare a settembre qualche materia nella quale avevano incespicato.
Salendo le scale, il ragazzo teneva ben stretta nella sua la mano di Carlina, come se temesse che potesse fuggire, lasciandolo lì da solo in quel grande edificio ad affrontare il suo destino; come giunsero accanto al tabellone con il risultato dei maturi, intravide delle righe scritte in rosso, com’era d’uso affinché fossero ben evidenti a tutti i respinti, messaggio di gogna per i malcapitati cui era toccato quell’amaro destino; non potette però realizzare se quelle righe della vergogna fossero più o meno all’altezza in cui verosimilmente, nell’ordine alfabetico, lui fosse posizionato sul tabellone, perché chiuse subito gli occhi e disse senza alcun timore di apparire timoroso alla ragazza: “guarda tu, io non ho il coraggio, mi scoppia il cuore” ed attese tremebondo che le sue giovanili labbra rosa e sottili gli proferissero la sentenza.

Lui non sapeva con precisione se la Carlina fosse la sua ragazza, per questo il batticuore che provava era dovuto non solo all’attesa di apprendere il risultato dei suoi studi, ma anche dalla stretta della mano della ragazza nella sua. In ogni caso quel giorno Carlina, senza nemmeno farsi pregare troppo, aveva acconsentito ad accompagnarlo in quella missione e lui ne era stato felice, perché era certo d’amarla da tempo con tutto se stesso, anche se per i motivi di studio già raccontati, non aveva avuto gran tempo per farle il classico filo e tessere un’opportuna ragnatela in cui imbrigliarla.

Dopo la veloce salita dello scalone, il ragazzo aveva il fiato corto e la gola secca come non mai; impalati davanti ai tabelloni, Carlina aveva di certo già letto il risultato, ma la ferale notizia tardava a giungere; si attendeva come messaggio rivelatore del suo futuro da parte della ragazza una stretta più forte della mano, una parola qualsiasi o non sapeva cos’altro che gli potesse far intuire l’esito dell’esame, sia in senso positivo che negativo, ed invece, mentre il suo cuore rullava sempre più come un tamburo in un accampamento di indiani in procinto di attaccare le giacche azzurre, continuando a tenere gli occhi chiusi sentì inaspettatamente premere contro le sue le labbra della ragazza, con una forza che fino a quel momento non aveva mai conosciuto nelle peraltro non molte occasioni che lei gli aveva fin lì furtivamente concesso tale intimo piacere, pur frequentandosi da un buon sei mesi, cosa che l’autorizzava come detto a considerarla la sua ragazza anche se tra di loro l’argomento non era mai stato affrontato, preferendo lui restare in una dolorosa e speranzosa incertezza. “Fai il bravo” – gli diceva quando l’abbracciava sulla panchina del deserto lungo lago di Intra, sotto lo sguardo severo ed accigliato della grande Vittoria bronzea del monumento ai Caduti, che certo pensava severa a quanti giovani, morti sui monti tridentini, erano stati privati di quelle gioie amorose. “Fai il bravo” – gli diceva quando la stringeva un poco troppo forte per sentire il calore della sua giovinezza, gettando benzina sul fuoco – “ci conosciamo appena… andiamo piano, piano, perché il mio cuore forse vorrebbe andare forte, forte” e lui le sorrideva con un’espressione piuttosto idiota scostandosi un poco da lei e non osava confessarle, poiché nei discorsi trasudava sicumera ed esperienza da stravendere, che per lui lei era la prima vera ragazza e quindi era piuttosto impacciato circa l’iter, e soprattutto l’escalation, da seguire nei rapporti amorosi.

Strinse dunque ancora di più gli occhi, fin quasi a far schizzare le pupille fuori dalle orbite e a sentire male, perché non riusciva a capire se quello che stavo ricevendo con un’intensità tale da fargli attorcigliare tutte le budella, nonostante l’apprensione per l’attesa del risultato, fosse un bacio consolatore, un premio o cos’altro ancora. Ad ogni buon conto, in base all’incontrovertibile concetto filosofico che ogni cosa persa è perduta, promosso o bocciato ritenne opportuno contraccambiare il bacio con pari slancio, rinviando di qualche minuto la conoscenza del suo destino. Forse ci mise però troppo impegno, perché: “non ne approfitti troppo, signor Maturo, di questo mio momento di debolezza e di soggezione davanti ad un diplomato, apra pure gli occhi e mi dica se mi posso ancora permettere di darle del tu” – gli disse Carlina staccandosi da lui dopo lunghi secondi di intensa effusione e permettendogli alla fine di respirare. A quelle parole il ragazzo aprì gli occhi, abbracciò Carlina forte forte schiacciando contro di lui senza ritegno alcuno il suo corpo di ragazzina sedicenne ancora acerba, bocciolo rugiadoso che già iniziava a schiudersi profumando di donna, e questa volta fu lui a cercarle le labbra e a baciarla con grande trasporto, liberando tutta la tensione che s’era accumulata in lui: si baciarono a lungo, finché non furono spintonati ed allontanati dagli altri ragazzi, nel frattempo arrivati, che non riuscivano a leggere l’esito dell’esame, inspiegabilmente più interessati al risultato del loro grigio anno scolastico, che non alle intense effusioni amorose dei due ragazzi.

Scesero le scale di corsa, lui salì sulla sua Vespa 125 e altrettanto fece Carlina, sedendosi all’amazzone sulla sella posteriore, tirandosi la gonna giù fin sotto al ginocchio: gli cinse la vita con un braccio e appoggiò la testa sulla sua spalla. Cos’altro, dalla vita? Accese il motore, sgambando con forza sulla leva dell’avviamento, e partì a tutta velocità, per lo meno compatibilmente con la modesta potenza del mezzo, e percorse a tutta birra, suonando il clacson in continuazione, i pochi chilometri della litoranea del lago che separavano Intra da Susello, piccolo paese appena sopra Ghiffa, dove abitava Carlina, in un minuscolo appartamento annesso al circolo cooperativo del paese, che era gestito dalla madre, che aiutava nel tempo lasciatole libero dagli studi, in quanto il padre, alpino rientrato miracolosamente vivo dalla tragedia russa, ove aveva lasciato come ricordo di sé solo un paio di dita del piede destro, aveva deciso che dopo aver fallito il tentativo di liberare la Russia dai bolscevichi, sarebbe stato il caso di affrancare l’Italia dai nazi-fascisti, mancando però per pochi giorni anche questo secondo obiettivo, in quanto era riuscito, appena messa incinta la moglie, a farsi ammazzare dai tedeschi sulle colline poco sopra casa, alcuni giorni prima che finisse la guerra.

La strada che portava a Susello era stata ricavata negli anni ’50  dalla vecchia mulattiera che saliva dal lago, come quasi tutte le strade di montagna che raggiungevano i piccoli paesi dell’entroterra. Per realizzarla erano semplicemente stati abbattuti i muretti a secco che per secoli avevano delimitato la mulattiera per adattarla alle nuove esigenze, spargendo un velo di bitume sulla rizzada, nascondendo così le pietre rese lucide e levigate dalle migliaia di scarpe, scarponi e piedi nudi che le avevano faticosamente calcate, quasi fossero state un retaggio vergognoso di un passato di miseria da dimenticare e andassero nascoste alla vista del benessere motoristico avanzante. La stradina era stata dunque allargata quanto bastava per il modesto traffico di allora, senza immaginare che solo nel giro di pochi anni sarebbe risultata del tutto insufficiente per l’esplosione del numero dei mezzi a motore che avrebbe stravolto le abitudini di valligiani e contadini. Però, già in vista delle prime case di Susello, la strada curvava quasi a 90 gradi perché era stata graziata dalla demolizione una grande cappella con davanti un porticato, che sempre veniva edificato per permettere il raccoglimento dei pellegrini che sostavano in un momento di preghiera e per offrire loro nel contempo un gradito riparo in caso di pioggia, evento allora del tutto abituale in prossimità del lago. Però, mentre la mulattiera passava davanti alla cappelletta, la strada era stata deviata rispetto al tracciato originario e lambiva l’edificio dal dietro, per cui il porticato e l’interno della cappelletta restavano nascosti a chi passava per la nuova strada. Solo qualche vecchio ormai, rientrando in paese da Ghiffa a piedi, sostava per una preghiera, perché i giovani, che sfrecciavano con i loro rumorosi motorini (qualcuno addirittura in seicento), nemmeno sapevano se nella cappelletta fosse sopravvissuta all’ingiuria del tempo e dei vandali una statua, un affresco o cos’altro. Forse non si accorgevano nemmeno dell’esistenza del piccolo edificio, anche perché nel tempo il boschetto circostante s’era infittito e i rami dei castagni più vicini già s’allungavano a lambirne, quasi protettivi, il piccolo tetto di piode.

Anche il ragazzo per la verità, pur avendo notato il piccolo oratorio le non molte volte che aveva accompagnato in Vespa Carlina a casa, non era mai stato preso dalla curiosità di vedere cosa custodisse al suo interno. Ma quella volta, ancora accaldato per i baci che s’erano scambiati senza ritegno alcuno della sacralità dell’edificio scolastico, preso da un improvviso impulso, che peraltro c’entrava molto poco con il desiderio di ispezionare il piccolo oratorio in raccolta preghiera, rallentò, imboccò a passo d’uomo con la Vespa che sembrava brontolare scontenta per l’inusuale percorso – “brum brum brum” mormorava – un sentierino che fiancheggiava l’antica costruzione, s’incuneò tra rovi e sterpaglie badando di non sfrisare i panciuti fianchi della motoretta, giunse sul retro della cappelletta, che in realtà era il fronte, e si fermò. Diede un’imballata al motore – “brrrrùm” -, tanto per consumare un poco di costosa miscela e come per impossessarsi della postazione, quasi che il ruggito del pistone sofferente equivalesse a piantare la bandiera sul polo artico per prenderne signoria. Spense il motore. Si sentì il frullare d’ali di alcuni uccelli, che, disturbati, volarono lontano. Poi un silenzio assoluto calò attorno a loro.

Carlina scese con un piccolo salto dalla sella, quasi scivolando sul fianco del bauletto, senza dire né chiedere nulla circa la deviazione dalla via abituale verso casa; lui sollevò la Vespa sul cavalletto, chiuse la chiavetta della benzina per evitare che il motore si ingolfasse, poi lasciò il suo destriero, lucido di sudore dopo la corsa sfrenata, a brucare tranquillo un poco d’erba ed entrò sotto il porticato per ispezionarlo più da vicino. Gli venne spontaneo camminare un poco a gambe larghe, quasi stesse entrando in un saloon pieno di mandriani annoiati in attesa di un bel pomeriggio di scazzottature.

La cappelletta era in un evidente stato di abbandono chissà da quanti anni: il selciato sotto il porticato era diventato un vero e proprio praticello, in quanto erano state asportate la maggior parte delle grandi pietre che lo costituivano, per arredare evidentemente in modo pio i giardini della zona. La grata in legno, che doveva proteggere la cappelletta vera e propria dagli insulti dei miscredenti, quasi a creare un Sancta Sanctorum, era completamente divelta. All’interno della cappelletta, sulla parete di fondo, s’intravedevano ancora abbastanza bene nonostante l’ingiuria del tempo, degli uomini e dell’abbandono il reliquato, abbondantemente coperto di scritte e di date, di quello che doveva essere stato un affresco, tracciato da una mano certo non giottesca ma nemmeno minima: l’autore doveva essere stato uno dei tanti cosiddetti pittori che giravano nell’ottocento le valli dell’entroterra intrese per sbarcare il lunario dipingendo gli infiniti oratori, viae crucis, chiese e quant’altro si trovavano lungo sentieri e mulattiere, per spingere ad una preghiera i villani, interrompendo per qualche istante il lungo rosario delle dure fatiche del lavoro quotidiano dei campi e degli alpi, ricevendo in contraccambio della loro arte raramente del denaro, più spesso ospitalità e il modo di accompagnare il pasto con la cena almeno per il tempo che si soffermavano in quel paese a realizzare la loro opera, che proprio per questo motivo a volte durava mesi e mesi. Nella fattispecie quell’affresco rappresentava una Madonna, con il rosso cuore in bella vista esposto fuori dalla tunica, grondante sangue e trafitto da lunghi coltelli.
“La Madonna dei sette dolori” – disse Carlina avvicinandosi con rispetto ed un poco di timore alla sacra effige, come riconoscendo una persona con la quale era stata in dimestichezza da bambina e che poi negli anni aveva un poco perso di vista: si fece con rispettosa devozione il segno della Croce. “Quando ero bambina mia nonna recitava sempre alla sera la coroncina della Madonna dei sette dolori. A volte la nonna mi portava da casa proprio fin qui pregando: avrò avuto cinque, sei anni, forse. Mi raccomandava sempre di fare la brava, perché ogni peccato mortale di una ragazza era un nuovo coltello che veniva infisso nel cuore di Maria”. Sorrise, poi proseguì: “povera nonnina, chissà dove sarà adesso, mi voleva così bene e quando morì mi sembrò di morire anch’io, ebbi l’impressione che il mondo fosse all’improvviso vuoto e buio, che non ci fosse più attorno a me nulla di bello, perché per me mia nonna era ancora più bella di mia madre. Ma il giorno dopo il funerale già ridevo e scherzavo, correndo per il cortile con i miei amici. Avevo otto anni, quando morì. Come si può essere così stupide ed ingrate. Ci fosse oggi, adesso, qui, accanto a me, a proteggermi e a tenermi lontana da….” Carlina non finì la frase, si intristì al ricordo, sperimentando nel contempo il solito senso di colpa che si prova quando il pensiero va ad un caro morto, rimpiangendo il poco tempo che gli si aveva dedicato da vivo e il grande bisogno che se ne provava ora che non c’era più. Carlina sentì un brivido passarle veloce sulla schiena. Ebbe come un fremito, si girò verso il ragazzo, lo guardò quasi sentendosi in colpa di chissà ché e gli disse, sorridendo: “è passata la morte!” Ma non era stato a provocare quel brivido il fantasma della nonnina evocata con tristezza, che si stava precipitando dal cielo in terra per salvare Carlina dall’incombente pericolo: quel brivido l’aveva provocato più semplicemente la mano del ragazzo. Avvicinatosi a Carlina, le aveva posato infatti delicatamente la mano sulle spalle, accarezzandola leggermente e sentendo la sua pelle sotto la leggera camicetta estiva. Lui non sapeva quale fosse l’iter da seguire nelle vicende amorose, non ne conosceva l’escalation da rispettare, sapeva solo che la prese per entrambe le mani, l’attirò a se fino a sentire il suo piccolo seno ansimante inturgidirsi contro il suo petto e non sapeva se andavano forte forte o se andavano piano piano, certo andavano alla cieca, inesperti e timorosi, uno più impaurito dell’altra nell’imboccare una strada che era totalmente sconosciuta, un sassoso viottolo di campagna che li faceva sussultare ad ogni passo, un percorso che imboccavano per la prima volta storditi dal sole, dal profumo della terra, dal canto dei grilli.

Andarono forte, andarono. Veramente forte. La cappelletta era in evidente stato di abbandono, il selciato era ormai un soffice prato: re e regine, nelle notti in cui procrearono i principi ereditari, futuri condottieri o papi, non ebbero letto più morbido di quel verde terreno, coltre più variopinta di quei mille fiori, profumi più odorosi di quella campagna, anche se la Madonna venne trafitta al cuore da un nuovo coltello. Ma l’espressione dell’immagine non sembrò più triste di come lo fosse già stata in tutti quegli anni di solitario abbandono, anzi, sembrò quasi che la Madonna sorridesse, contenta finalmente d’avere un paio di giovani a farle compagnia, mentre ad ogni buon conto per dovere d’ufficio distolse gli occhi da quella terra di lacrime levando misericordiosa lo sguardo al cielo.

Liborio Rinaldi

 

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