QUIEN SABE?

QUIEN SABE?

¿Quién sabe? 

In questi giorni in cui sembra che si stia per aprire il settimo sigillo e che l’arcangelo del destino stia  per suonare la tromba dell’apocalisse decretando la fine del mondo, rivelando finalmente cosa ci  sia oltre, mi torna in mente quell’otto febbraio del 2013 in cui, a 55 gradi di latitudine sud, sono  arrivato per davvero a toccare con le mani, o meglio a calcare con i piedi, boots on the ground,  direbbero gli yankees, la fine del mondo, per lo meno quello ancora abitato da umani. 

“Dunque eccoci arrivati alla fine del mondo…” dissi in quel lontano dì ai miei compagñeros e  mentre lo dicevo pensai che in definitiva non avevo partorito una gran frase, una di quelle  sentenze così indimenticabili da essere scritte a futura memoria nei libri di scuola, anzi… 

Avevo iniziato a rimuginare sulla frase storica che avrei dovuto proferire già da una settimana,  quando eravamo ancora a Punta Arenas, già Punta Arenosa e prima ancora Sandy Point, tanto per  ribadire che i dintorni di questa cittadona dell’Antartide cileno sono piuttosto inospitali e sabbiosi.  Nel suo porto non s’imbarca più da molti e molti decenni la lana, che qui arrivava in continuazione  dopo aver tosato milioni di pecore nelle estancias dell’entroterra, pecore che pasturavano libere  nelle pampas che sembrano essere senza fine perché ovviamente non possono sapere che la loro fine invece è solo ad un paio di giorni di cammino da lì. Erano giorni da quando, peregrinos  errantes, eravamo partiti da Punta Arenas un poco delusi perché, alla faccia dei racconti di  Sepùlveda , l’unica pecora vista era stata quella non precisamente felice che era finita nel piatto  d’una nostra cena; era dunque da allora che rimuginavo sulla frase solenne che avrei dovuto  proferire giunto alla fine del mondo; avevo scartato “alea iacta est” perché il dado l’avevamo  lanciato un mesetto prima quando avevamo iniziato quest’avventura a El Chaltén, paesino  argentino a 6 gradi di latitudine e a un settecento chilometri più a Nord; forse si sarebbe adattata  meglio una frase del tipo “That’s one small step for a man etc etc” da astronauta che calca il suolo  lunare per la prima volta; ma il mio non era poi in definitiva un gran passo e nemmeno  nuovissimo: quanti l’avevano già compiuto prima di me! Eppure l’attesa di giungere al punto  abitato più meridionale del mondo era giorni che mi emozionava e preoccupava al tempo stesso.  Qualcosa da dire avrei pur dovuto rabberciare per solennizzare l’evento, ma cosa?  

Mentre su un improbabile traghetto squassato da marosi e vento eravamo sballottati qua e là  attraversando el Estrecho de Magallanes, cioè lo stretto di Magellano, che poi così stretto non è,  anzi, quando lo si attraversa sembra non finire mai, e mentre i miei compagni di trekking cercavano gli angoli più riposti del barco per vomitare il vomitabile, io, abbarbicato ad una  ringhiera del ponte del natante, che certo aveva pur dovuto conoscere una lontana giovinezza,  zuppo come pochi per le onde che scavalcavano il traghetto, magari per distrarmi dall’incerto  futuro della traversata, continuavo a pensare alla famosa frase che avrei dovuto proferire, se mai il  traghetto fosse miracolosamente approdato sull’opposta sponda meridionale dello stretto e  fossimo sbarcati nella tierra del fuego, cioè la isla del fin del mundo, ponendo così  contemporaneamente fine al mondo e al nostro viaggio. 

Era stata lunga la marcia d’avvicinamento, del resto eravamo diretti alla fine del mondo, mica al  bar Sport dell’angolo: era quasi un mese che vagabondavamo per il sud America, colà giunti non  dagli Appennini, ma dalle Alpi alle Ande: dopo esserci sobbarcati una ventina d’ore d’aereo, come  detto eravamo partiti da El Chaltén, stupendoci che el fuerto viento patagónico non fosse ancora  riuscito a sradicare le piccole variopinte case del paesino per le cui vie camminavamo tenendoci  sottobraccio per il suddetto motivo; eravamo quindi discesi verso sud per lunghi giorni a piedi, 

dormendo in tenda, e altri giorni non meno brevi con un’improbabile furgoneta, dormendo in  estancias che per comodità di alloggiamento facevano rimpiangere la tenda stessa. Ma quando  scendeva la sera e las pampas s’incendiavano d’un rosso che solo lì è così rosso e attorno a noi  sembravano danzare leggeri col vento los guanacos, i camelidi che per secoli avevano nutrito los  indios tehuelche, prima che entrambi venissero sterminati da los conquistadores Cortés e Pizarro,  portatori di civiltà, archibugi e malattie, ecco, allora in quei momenti non c’erano frasi storiche da  proferire, c’era solo da piangere per la commozione e le lacrime per il freddo divenivano subito  cristalli di ghiaccio che trafiggevano gli occhi e soprattutto il cuore. 

Avevamo costeggiato su sentieri d’ogni tipo tutta la catena del Fitz Roy, che i nativi chiamano  ancora Cerro Chaltén, montagna che fuma, fino a raggiungere il Cerro Solo e il Cerro Torre,  fermandoci nei cento miradores spesso smarriti, timorosi e riverenti ad osservare ammirati il  groviglio di guglie che salivano al cielo nascendo, Veneri candide, dai ghiacciai perenni, prima di  perderci nel grande catino da dove prorompevano gridando al cielo la loro voglia di vivere le  imponenti torri del Paine. 

Giorni e giorni, centinaia di chilometri sempre verso sud e ora eccoci qui, dove esausta finisce nella  polvere la Ruta 3, il terminale della pan americana: dopo 25.000 chilometri e l’aver costeggiato  tutto l’oceano Pacifico questa carretera ha ben diritto d’essere stanca, del resto siamo alla fine del  mondo, più a sud non si può andare, se no che fine del mondo sarebbe? Ma noi invece ci  spingiamo ancora più a sud, seguendo l’agonia della Ruta che da carrareccia diventa un sendero ma non luminoso, come avrebbe voluto il maoista Abimael Guzmán anni addietro, seguiamo un  sendero sombreado perché si snoda in un bosco fitto fitto; mentre percorriamo dunque il sentiero  ombreggiato più a sud del mondo, all’improvviso tra le sterpaglie appare un leprotto, un bel  leprotto che è il leprotto più meridionale del mondo, ma ahimè, sic transit gloria mundi, ecco che  impaurito corre via alle nostre spalle e allora torna ad essere un semplice leprotto, uno dei tanti.  Intravediamo una castorera, ma di castori nemmeno l’ombra, forse non aggrada loro di essere i  castori più a sud del mondo, troppa celebrità, timidi come sono. 

Proseguiamo nella boscaglia e usciamo all’improvviso su una spiaggia, chissà se è consapevole di  essere la spiaggia più meridionale del mondo: siamo giunti sul canale Beagle, esplorato dal  capitano Fitz Roy e dal naturalista Darwin, posto magico ove le acque dell’oceano Atlantico si  fondono con quelle dell’oceano Pacifico: raccolgo sulla spiaggia un’alga qui spinta dalle onde,  potrebbe essere giunta qui indifferentemente dall’Europa, dall’Africa o dalle Indie, ma che  importa, un’alga è poi sempre un’alga, anche se questa è l’alga spiaggiata più a sud del mondo e  scusate se è poco. 

“Dunque eccoci arrivati alla fine del mondo…” dissi, ma sarebbe stato meglio se fossi stato zitto,  perché all’improvviso ci colse un poco a sorpresa una strana sensazione all’idea che eravamo  finalmente giunti alla fine del tutto, come se la terra fosse stata piatta e noi, curiosi come Ulisse  spinto dal vizio di seguire “virtute e canoscenza” quando valicò le colonne d’Ercole, ci stessimo per  sporgere oltre il suo bordo, per vedere una buona volta che cosa vi fosse oltre. Quizás. 

Per la verità qualcosa ancora un pochino più a sud c’era: un minuscolo pontile che si sporgeva  timido sul canale Beagle e alla cui estremità un gabbiotto fungeva da ufficio postale più a sud del  mondo, dove un baffuto cartero in divisa, il baffuto postino in divisa più a sud del mondo, vendeva  cartoline con tanto di timbro per certificare sul passaporto che si era proprio giunti alla fine del  mondo e che più in là c’era… quizás?, non sapeva dircelo nemmeno lui perché non aveva mai 

avuto la curiosità di sporgersi oltre il bordo che era lì a portata di chi volesse seguire “virtute e  canascenza”, ma lui era pagato solo per timbrare il passaporto e certificare così che era lì la fine  del mondo e che non era possibile fare un solo passo in più. 

Alla mia domanda, direi pertinente, di sapere che cosa ci fosse oltre il bordo di questa terra piatta,  rispose “¿Quién sabe?”, timbrò il passaporto, mi ruotò di 180 gradi e mi riavviò verso nord. Sulla via del ritorno pensavo che forse è inutile andare fino alla fine del mondo per sapere che  cosa ci sia oltre, perché la risposta ognuno di noi la può trovare alla fine del suo corazón

Liborio Rinaldi 

 

 

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