IL FIGLIO

IL FIGLIO

Il figlio

Stava pensando se avesse fatto tutto: s’era potuta fermare a casa solo due giorni, perché l’avevano chiamata prima del previsto e aveva dovuto riprendere subito a lavorare in un’altra città e non era sicura se avesse sbrigato tutte le faccende, che s’accumulavano sempre così numerose durante le sue lunghe assenze a causa di queste trasferte.

Le bollette erano state pagate, in banca era andata, era passata anche in Comune per quella storia che era venuta fuori sul valore dell’acquisto della villetta, per la quale s’era tanto sacrificata e che finalmente, pur dando fondo a tutti i suoi sudati risparmi, ora era sua. Bhè, raschiato il fondo del barile, non restava da fare altro che rimboccarsi le maniche e riprendere a lavorare duramente, come del resto aveva sempre fatto, sacrificando domeniche e sere: in definitiva aveva appena passato i trenta e, ringraziando il cielo, le forze e la volontà non le mancavano di certo.

Si spostò leggermente, perché stando a letto così supina e ferma, da qualche tempo le veniva un fastidioso mal di schiena.

In quei due giorni di vacanza Adua era riuscita anche a passare in lavanderia, dove la sua amica d’infanzia Rosa le aveva rimesso a nuovo e stirato le tende del salotto, che ora, appese, facevano nuovamente bella mostra di sé. Erano tende leggere, di un tenue colore rosa a fiori, e con il sole del mezzogiorno, quando s’affacciava invadente contro le vetrate, tutta la stanza assumeva una bella luce diffusa, molto calma e distensiva, rasserenante. Quando Adua poteva fermarsi qualche giorno nella sua casetta, non voleva vedere nessuno, per disintossicarsi di tutta la gente che vedeva sul lavoro: si metteva elegante, con un nero abito lungo, e passava le serate nel suo salotto, come una vera signora, a fumare con calma una sigaretta Turmac, a bere un bicchierino e, mentre sfogliava senza leggerlo Grand Hotel, ascoltava la radio. Unica visita che ammetteva, era quella dell’amica Rosa: si sedevano sul divano una accanto all’altra, si prendevano per mano, proprio come erano avvezze fare quando erano bambine e si sdraiavano al sole su un prato, chiudevano gli occhi e davano libero sfogo ai pensieri e ai sogni.

Si rimosse leggermente, perché quella sera il male di schiena era veramente fastidioso: si sarebbe dovuta ricordare di segnalarlo al dottore, quando l’avrebbe visitata, perché sul lavoro era un bell’impiccio e poi non le piaceva provare dolore e stare male.

Chiuse gli occhi, come se fosse stata seduta sul divano di casa sua, e in un attimo i ricordi iniziarono a galoppare veloci, e spesso aveva l’impressione di esserne travolta, talmente violento era il loro impeto. E non poteva non ripensare alla sua recente storia d’amore, che in definitiva era stata l’unica della sua vita e che, come tutte le storie d’amore che si vivono non più da giovanissimi, era penetrata nell’animo con forza dirompente. Quella storia non riusciva a svanire come rugiada sui petali d’un fiore al primo sole dell’alba, senza lasciare traccia alcuna: le ferite provocate avevano sanguinato a lungo e, anche se rimarginate, erano restate ruvide cicatrici.
S’erano conosciuti solo quattro mesi prima, lei e Gianni, lui uno dei tanti, che all’inizio non l’aveva nemmeno colpito particolarmente. Sempre allegro, sorridente, amava scherzare su tutto e la metteva di buon umore e fu forse per questo che, dopo qualche incontro, iniziò a piacerle tantissimo. Erano così entrati in sintonia e Adua s’era anche lasciata andare a confidenze, a discorsi personali, cosa che non faceva mai, e in un momento d’abbandono s’era anche fatta baciare, cosa che anche questa non faceva mai, ed una strana tenerezza, mai provata, le era entrata fin nel profondo, turbandola. Gianni se ne era accorto e ne aveva approfittato per convincerla ad uscire insieme la domenica successiva, dal momento che Adua gli aveva detto che avrebbe avuto una giornata di libertà dal lavoro.

Adua osservò com’erano sporchi i vetri della finestra di quella casa, così diversi da quelli di casa sua, che faceva pulire meticolosamente, come del resto ogni angolo anche più riposto di ogni stanza: pensò con orgoglio che nei suoi pavimenti, tirati a cera, ci si poteva specchiare e lei ci camminava sopra solo in pantofole o con le pattine, obbligando a quello strano esercizio anche Rosa, quando la veniva a trovare; l’amica la tirava in giro per questa sua mania quasi ossessiva, tipica di chi è costretto per lavoro a trascorrere lunghi periodi fuori di casa. Si rimosse solo leggermente, per allontanare un principio di crampo alla gamba, perché finalmente aveva trovato una posizione, grazie alla quale la schiena non le doleva nemmeno molto.

Dunque quella domenica Adua e Gianni erano usciti insieme: la primavera era arrivata in fretta nel 1957 sul lago Maggiore e per innamorarsi fino alla perdizione non c’era da fare altro che camminare per i sassosi viottoli periferici, mano nella mano, facendosi stordire dalle mille sensazioni, che provocavano i prati profumati. E loro si persero, buttandosi su un prato, ove l’erba maggengale iniziava già a divenire alta e li copriva dagli sguardi indiscreti dei curiosi, perché lei aveva fame di baci. Vivaci colorate farfalle si dispiegavano in volo su di loro, disturbate da quel rotolarsi infinito, essendo i due giovani avvinghiati, più che abbracciati. Ora che era successo, cosa sarebbe stato di lei? Cosa poteva significare tutto ciò? Era una svolta nella sua vita? Adua non lo sapeva, stordita dal sole negli occhi e caldo infinito e sensazioni sottili e profonde mai provate prima e subito il desiderio di ritrovarle appena lui si allontanava.

***

Quando ero un ragazzino, scendevo dalla mia casa del secondo piano del palazzo Franzosini al bar dell’angolo della piazza Teatro, dove abitavo, per andare a comperare il latte. Infatti verso sera, quando arrivavano all’imbarcadero le corriere un poco traballanti delle linee Barbini che scendevano dai paesini della Vallintrasca, venivano rifornite le varie mescite della cittadina di bidoni di lamiera contenente latte appena munto, che veniva distribuito anche nei bar. In tanti ne approfittavamo: veniva versato nelle nostre bottiglie di vetro, che portavamo con noi, e spesso il latte recava ancora il tepore della mucca appena munta. Acquistato il latte, invece di rientrare subito a casa, bighellonavo un poco nel bar, perché in una grande stanza laterale v’erano due biliardi tentatori, sempre occupati da giovanotti sfaccendati.

Io non sapevo giocare a stecca, come si diceva tra persone del giro, e del resto la mia giovanissima età non me l’avrebbe nemmeno permesso: mi piaceva però vedere con quale abilità venivano manovrati quei lunghi affusolati bastoni e come le palle finivano in buca, correndo veloci sul verde tappeto dopo essersi urtate con uno schiocco secco. Mi capitava così di ascoltare inevitabilmente e con curiosità anche i discorsi dei giovanotti, discorsi che spesso faticavo a decifrare; i ragazzotti parlavano tra di loro spesso con ammiccamenti, allusioni e sottintesi e gli argomenti quasi sempre spaziavano su mondi a me sconosciuti.

“Sì, l’ho finita quella storia con l’Adua” – disse uno dei giovanotti dopo aver fatto un bel filotto – “l’ho finita per davvero”.
“Era ora Gianni: s’incominciava a parlarne un poco troppo anche in giro. Ti stavi mettendo in un bel casino: è proprio il caso di dirlo” – rise il secondo giocatore di biliardo in modo un poco sarcastico nel pronunciare queste parole. Il giovanotto, che era stato chiamato Gianni, era impegnato a fare un tiro e, alle parole dell’amico, sbagliò di grosso, rischiando di fare un costoso sette al tappeto verde: oltretutto sarebbe stato il primo strappo, il più costoso. Si alzò, posò la stecca ed iniziò a gessarla con cura meticolosa, ma si capiva che dell’operazione non gliene importava un bel niente e che stava pensando ad altro.

“Non so nemmeno io cosa m’aveva preso… e perché mai” – proseguì Gianni – “perché Adua era una delle tante, nemmeno la più bella oltretutto, lo sai anche tu. Però, aveva un qualcosa di particolare: quando mi guardava con quei suoi grandi occhi, sembrava di poterla leggere dentro come un libro, leggevo un’anima bella e m’ha mandato completamente fuori di testa”.

“Ma è vero che anche lei s’era innamorata di te ed è per questo che la madama non la vuole più qui? Nessuna complicazione con i clienti, è il suo motto. Sembra che la vogliano spedire nel giro delle case della Liguria”.

“Chi lo sa? Certo, dalla prima volta che, una domenica, ci siamo visti fuori perché era di riposo, non ha più voluto che andassi da lei sul lavoro, che la vedessi con altri clienti; ci vedevamo solo quando aveva il turno di libertà, di nascosto da tutti, sai che non possono farsi vedere insieme a qualcuno… Mi dava l’impressione che volesse bruciare in quelle poche ore tutto l’amore che non aveva mai avuto e di cui aveva un grande bisogno, quasi una necessità dell’animo, prima ancora che fisica”.

“Gianni, ascoltami, sai che ti sono amico: meglio, molto meglio che hai trovato il coraggio di troncare; lo sai anche tu che non era una storia da poter proseguire, perché si vede lontano un miglio che avevi perso la testa per quella… quella ragazza, e, ti dirò, da come ne parli, da come ti stai comportando in questi giorni, mi sembra che ne sei ancora innamorato, e nemmeno poco”.

“Gianni” – disse a voce alta un terzo giovanotto entrando rumorosamente in quel momento nella sala. Gli occhi gli brillavano ed era evidente che voleva tirare in giro Gianni, anche se in modo pesante ed inopportuno, non avendo sentito la conversazione che s’era svolta prima: ma del resto nel bar, quando Gianni non c’era, non si parlava ormai d’altro e quella storia aveva iniziato a girare anche per tutta la cittadina, avida di pettegolezzi, meglio se piccanti. Il nuovo venuto proseguì: “sono stato in via degli Orti e indovina da chi sono salito, a svolgere un’opera di pia misericordia cristiana e a consolare gli afflitti? Sono salito dalla tua…”
Non riuscì a finire lo scherzo inopportuno, sempre che poi fosse uno scherzo e non la verità, perché Gianni prese la stecca che stava gessando con le due mani e la picchiò, con tutta la forza della rabbia che aveva in corpo, sulla testa dell’amico. La stecca rimbalzò, scivolò, strisciò sull’orecchio del malcapitato, facendolo sanguinare abbondantemente e provocando un grido di dolore da parte del giovanotto, che rimase stupito per la violenza della reazione dell’amico.

Gianni scaraventò la stecca sul tappeto verde del biliardo, facendo schizzare le palle tutt’intorno, e, senza dare retta agli amici che lo chiamavano, né preoccupandosi d’altro, se ne uscì, come se tutto ciò che capitava intorno a lui non lo riguardasse più. Piangeva. Era amore, certo che era amore. Lo dovetti pensare anch’io.

S’era fatto tardi e, un poco imbambolato da quei strani discorsi, che peraltro avevo capito poco, tornai a casa tenendo ben stretta la bottiglia del latte, perché, con una strana agitazione addosso, le mani mi tremavano ed avevo il cuore in tumulto, senza saperne bene il motivo, ma percependo però perfettamente che sarebbe stato meglio non chiedere a casa troppe spiegazioni su quei discorsi che avevo sentito. Sorseggiando dalla bottiglia il latte ancora caldo, salivo le scale di casa, pensando che oltretutto i giovanotti avevano parlato di via degli Orti, e già altre volte a scuola avevo sentito citare quella via da parte di qualche mio compagno, ma sempre con strani sorrisi e sottovoce.

Passai una notte molto agitata, durante la quale sognai alternativamente i giovanotti del biliardo ed una donna, dalle fattezze sconosciute, avvolta in veli trasparenti, che non poteva essere altri che la citata misteriosa e sconosciuta Adua.

Il giorno dopo, tornato da scuola e mangiato un boccone in fretta e furia, con la scusa di dover andare a studiare da un mio compagno, inforcai la bicicletta e pieno di curiosità mi avviai alla ricerca di via degli Orti, che mi sembrava di ricordare che dovesse essere in periferia, verso l’argine del torrente San Bernardino. Giunto nei paraggi, chiesi informazioni ad una signora, che, alla mia domanda, arrossì e si mise ad imprecare su questi maledetti tempi moderni e sull’educazione che la scuola non dava più, per non parlare dei genitori che trascuravano i figli o chissà che altro ancora, andandosene peraltro via senza rispondere alla mia domanda e rimpiangendo a gran voce i suoi bei tempi andati. Sempre più perplesso ed incuriosito trovai alfine la strada incriminata, che non mi sembrò così terribile e misteriosa: non era altro che una piccola viuzza all’estrema periferia, completamente deserta. Sulla sinistra v’era un basso muretto di cinta, contro il quale avevano trovato posto – da qui il nome, ne dedussi – una lunga teoria d’orti ben curati. Dal lato opposto solo due casette, abbastanza discoste l’una dall’altra: una, dal rosso intonaco, m’incuriosì, perché aveva tutte le finestre sprangate, pur essendo pieno giorno. Dal portoncino dell’ingresso all’improvviso uscirono tre o quattro alpini, vociando chiassosi; passandomi accanto, uno di essi mi disse, dandomi una manata sulla spalla e provocando le risate dei suoi commilitoni: “Hai premura? Mi sa che devi aspettare ancora qualche anno, spina”.

Certo, sarebbe dovuto passare ancora qualche anno prima che potessi capire il significato di quelle parole e sapere quali traffici si consumassero in quella casa, ma nel frattempo era stato deciso di chiudere le case chiuse aprendole e rovesciando ipocritamente sui marciapiedi le loro inquiline, con tutto il loro fardello di umanità dolorosa.

***

Finalmente il cliente, con un gemito simile ad un rantolo, raggiunse il suo intendimento. Appena Adua se ne accorse, lo spostò bruscamente con uno strattone e lui le si sdraiò di fianco. Adua si mise a sedere sul letto, si infilò una vestaglia e si alzò, stirandosi: le dolevano tutte le ossa e si sentiva intorpidita. Si accostò allo specchio e, preso un pettine, si ravviò i lunghi capelli, che portava sciolti sulle spalle. Quante volte Gianni aveva giocato con essi, baciandoli, lisciandoli, tirandoli, arrotolandoseli sulle dita. Sì, ora riusciva a vedere perfettamente in lei, ma solo ora che lui non c’era più, solo ora che lui le aveva detto che la lasciava, che la loro relazione non poteva continuare, solo ora lei si rendeva conto, che si era innamorata di lui. Che storia senza senso! Che vita, senza più alcun senso. Sentì un rumore alle sue spalle: guardò nello specchio e vide la porta della stanza chiudersi: il militare aveva rivestito in silenzio la divisa ed era uscito alla chetichella senza nemmeno salutare, forse vergognoso di farsi vedere in faccia. Cinque minuti di pausa e poi sarebbe salito un altro cliente. La porta si sarebbe aperta e chissà, forse sarebbe apparso Gianni, su un bianco cavallo e, dopo aver tagliato la testa alla madama, avrebbe rapita Adua e l’avrebbe portata nel suo castello sulle nuvole. Sorrise: quante volte avevano così scherzato nei brevi intervalli di quiete, tra un abbraccio ed un altro, nei quali lei si donava completamente, senza nutrire alcuna preoccupazione per un futuro inesistente! Ma ora lui era scomparso e lei era tornata quella di sempre, con un dolore in più nell’animo ed una speranza in meno.

Sentì alle spalle la porta cigolare: guardò nello specchio e, un poco impacciato e titubante, vide entrare il nuovo cliente, perché la madama non era tipo da perdere tempo.

“Buongiorno, signorina” – disse sorridendo, tanto per rompere il ghiaccio, il nuovo venuto.

Lei si girò, alzò dolente la mano in un cenno di saluto, si tolse la vestaglietta e ripensò alla sua casetta, a quelle tende rosa che filtravano la luce del sole per nessuno, a quei pavimenti sempre troppo lucidi, lucidi come i suoi occhi in questo momento.

Pianse, forse per la prima volta nella sua giovane vita, pianse ripensando a quel giovanotto che scherzava sempre, che la metteva subito di buon umore, rasserenandola e rassicurandola, e che aveva aperto, solo per un istante, uno spiraglio di speranza nella sua vita, schiudendole nuovi orizzonti, lungo i quali aveva però potuto compiere solo pochi passi incerti, prima che tutto le franasse attorno e addosso.

Aprì la finestra, il sole inondò la stanza. “Se almeno gli dicevo del nostro bambino” – pensò Adua – “magari restava”.  S’affacciò alla finestra, intravide il blu del lago che tante volte aveva visto abbracciata a Gianni, si sporse, si sporse. Si sporse.

“Ma che fai?” – urlò il cliente. Cadendo Adua strinse le braccia, abbracciò la sua casetta vuota e lontana, abbracciò un amore impossibile.

Liborio Rinaldi

 

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