LE CAMPANE DI NATALE

LE CAMPANE DI NATALE

È il 24 dicembre del 1964, cioè ieri, tanto sono fuggiti malandrini questi anni, e mi sembra che il traghetto, che da Laveno mi riporta a casa dopo una lontananza di un paio di mesi, galleggi immobile sulle onde, avvolto dalle fitte nebbie del pomeriggio invernale. L’aria è fredda e mi stringo nel cappotto; sono sul ponte, nonostante il freddo non voglio scendere sottocoperta: riassaporo dopo tanto tempo non solo a pieni polmoni, ma con tutto me stesso, il pesante profumo delle acque del lago Maggiore.

Ma ecco che, come sovente capita sul lago, inizia a soffiare, improvviso e subito violento, il sottile freddo vento invernale, e la nebbia si dissolve rapidamente.

Ora appare, quasi di colpo, la sponda piemontese, ancora vivida sotto gli ultimi raggi del sole; ecco che distinguo Intra, con l’azzurra cupola del San Vittore, sempre inseguita e mai raggiunta dal suo bel campanile: sarà poi vero ciò che mi raccontava mio padre, che i benefattori che lo eressero non ebbero abbastanza soldi per edificarlo più alto della cupola e la costruzione fu interrotta, tra infinite polemiche? Ed ecco la bianca granitica mole, snella e massiccia ad un tempo, della colonna che fa da gendarme all’ingresso del porto vecchio. Quante volte non ho mai visto tutto ciò? Ma com’è sempre eguale ogni volta l’emozione e la commozione!

Il cielo ora si fa azzurro ed appare la massa nereggiante del monte Zeda, ancora privo di neve, vigilato dai due fidi carabinieri, nei secoli fedeli: la Marona e la Maronetta. Ancora oggi, dalla finestra di casa mia, su un altro lago, vi rivedo in eguale prospettiva, monti a me così cari!

 

24 dicembre di tanti anni fa: ora il traghetto sta attraccando e vedo, sulla piazza, il colossale albero di Natale che a quei tempi veniva preparato in tutti i paesi, che facevano a gara nell’allestirlo il più alto e sfavillante possibile, ricco di scatole di panettoni, che noi ‘bocia’, con inflessibile speranza, la sera ispezionavano invano con cura meticolosa, alla ricerca di un contenuto che non c’era.

Il traghetto sta ancora manovrando, ma il mio pensiero è già a casa. Mi afferrano piccole sensazioni, immagini evanescenti, che però mi riportano di prepotenza all’infanzia: il profumo intenso delle bucce d’arancia messe a seccare sulle piastre di ghisa della cucina a legna… le mani bianche di farina della nonna, sempre affaccendata ad impastare dolci casalinghi… l’aria fredda che s’impigliava nella dura barba serale di mio padre, aria che si trasmetteva, con un bacio, rientrando a casa, con i doni mal celati sotto il cappotto… che mulinello nella testa, mentre apro la porta di casa, mentre con ancora in mano la valigia rispondo con forza all’abbraccio della mamma, ma già squilla il telefono.

È un amico del soccorso alpino che mi chiama, due persone si sono smarrite in montagna, dalle parti della Marona, sotto le feste non c’è quasi nessuno disponibile, con me siamo in quattro: insiste, bisogna partire subito. Affardello lo zaino, mi cambio, un saluto. “Tieni” – mi dice mio padre con uno sguardo triste ma fiero, di chi sa che faccio la cosa giusta, porgendomi una bottiglietta di grappa – “tieni, era per festeggiare domani insieme, lassù vi potrà servire”. Via, via, bisogna andare.

 

24 dicembre di secoli fa: la seicento sale un poco ansando i numerosi tornanti per Miazzina. E’ ormai buio, quando, lasciata l’auto al termine della strada, iniziamo la salita a piedi, veloci e silenziosi. Attraversiamo, fendendo l’oscurità con le torce elettriche, il fitto bosco d’abeti del Pian Cavallone e, finalmente, dopo un’ultima arrampicata, raggiungiamo la Croce della sommità. Un attimo di sosta, per riprendere fiato; guardiamo giù, nella valle. Un enorme presepe appare ai nostri occhi increduli. E’ notte ormai, e tutto il lago brucia delle luci dei paesi rivieraschi, incredibilmente rese vive e vicine dalla tersa e fredda aria invernale. Un traghetto, con i finestrini illuminati, porta un poco delle luci di Intra verso Laveno, alle cui spalle si erge la massa scura del Sasso di Ferro. Ed alle spalle di questo si scorge un gran chiarore indistinto: è Varese invisibile che rischiara il cielo ed accanto mandano il loro messaggio luminoso paesi e paesini. Vedo anche le luci del paese da dove sto scrivendo: non lo conosco ancora, neppure so che esiste, eppure già mi parla, mi annuncia che mi sta aspettando.

Ci scuotiamo; presi da quella fantastica visione, stando immobili e trasognati, ci aveva preso un pericoloso torpore.

Sorseggiamo della grappa, mangiamo del cioccolato e via, verso la Marona.

La faticosa ricerca alla luce delle torce, il felice ritrovamento delle due persone smarrite è un’altra storia, una delle tante.

 

Nel volgere di qualche ora il cielo si è completamente rannuvolato ed il freddo si è fatto meno pungente. A mezzanotte in punto ci ritroviamo sulla via del ritorno, alla stessa Croce dove già avevamo sostato per qualche minuto all’andata.

Nuovamente, una seconda magia ci avvolge. Prima flebilmente, poi sempre più forte, rincorrendosi e confondendosi, ci giungono alle orecchie i suoni di mille campane, dai paesi e dalle città, dalle valli e dal lago: è Natale.

Inizia anche a nevicare: prima solo qualche fiocco, poi sempre di più. I neri pendii s’imbiancano, riflettono il chiarore che giunge dal basso, si fondono in un tutt’uno. E noi, commossi alle lacrime, immersi in tutto ciò, non abbiamo nemmeno più la forza di muoverci. Il Natale ha raggiunto anche noi, nere ombre rese immobili dal freddo e dalla stanchezza.

Ci sentiamo come non mai presenti in quelle lontane chiese, dove il Cristo nasce ancora una volta e, lo percepiamo nitidamente, nasce mai come questa volta anche per noi, così lontani, ma pur così vicini.

Riusciamo a scuoterci, ci abbracciamo vigorosamente, ci porgiamo gli auguri scambiandoci un bacio sulle guance attraverso i passamontagna fradici di neve, ci avviamo velocemente verso valle.

Alle nostre spalle la neve ricopre le profonde orme degli scarponi. Lasciamo una montagna intatta.

 

LIBORIO RINALDI                                                Disegno del pittore Marko Foderati di Bodio Lomnago

  1. Bel racconto, molto poetico e pieno di passione.
    Lo dico non perchè è stato scritto da mio fratello Liborio ma perchè è davvero bello come sono belli tutti gli altri suoi racconti che sono stati pubblicati.
    Saluti cordiali
    Giuseppe Liborio Rinaldi

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  2. Un racconto che ci porta a ricordare frammenti del nostro passato ,immagini ,profumi , sapori e stili di vita ormai che vivono solo nei nostri ricordi ma che prepotentemente affiorano leggendolo.

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