LO SPECCHIO DELL’ANIMA

LO SPECCHIO DELL’ANIMA

Avevo dormito male quella notte del 31 dicembre 1999: con il trascorrere del tempo si perde il bel sonno profondo degli anni giovanili. Ancora una volta la vita ti prende in giro: quando c’erano così tante cosa da poter fare, si sprecavano le ore dormendo, mentre poi, quando le giornate sembrano non finire mai, le si dilata ancora di più vegliando a lungo. Ma a parte ciò, anche tutto il gran chiasso che c’era stato per le strade e il continuo sparo dei mortaretti, che si era protratto senza un attimo di tregua fino all’alba, avevano avuto la loro bella parte nel tenermi sveglio.
Del resto, in tutta onestà, non si può nemmeno pretendere il silenzio assoluto ed il rispetto dell’altrui quiete notturna in occasione di determinate ricorrenze e di certe feste, ed in modo particolare in coincidenza di eventi come quello, che,  non solo in questa mia amata città natale, ma in tutto il mondo, si consuma ogni anno. Il nuovo secolo giunge, per definizione, solo ogni cento anni; oltre a tutto, se con il nuovo secolo s’entra anche in un nuovo millennio, ciò capita fatalmente in modo incontrovertibile solo ogni mille anni e posso quindi ben capire e tollerare che ogni persona, giovane o vecchia che sia e d’ogni condizione sociale, abbia avuto una voglia sfrenata ed incontenibile, nonché il suo bel diritto, di festeggiare degnamente e chiassosamente l’alba del 2000, che gira in un solo colpo e secolo e millennio con le sue illusioni nuove e speranze vecchie, il tutto confezionato in un unico pacco dono.

Riavvolgo il nastro dei ricordi: ora mi rivedo a passeggiare – ritornato qui “per fare il Capodanno” Dio solo sa dopo quanti anni che ho vagato per le incerte vie del mondo in lungo ed in largo, ritrovandomi alla fine al punto di partenza, per il lungo lago di Intra, godendomi l’azzurro intenso delle acque del lago Maggiore; sono, come ho già accennato, le nove del mattino di sabato primo gennaio dell’anno di grazia del Signore duemila: la giornata è soleggiata e si preannuncia piacevolmente tiepida.
La passeggiata del lungo lago reca in abbondanza le tracce rilevatrici dei grandi festeggiamenti della notte appena trascorsa; numerosi sono infatti i residui degli sfrenati bagordi: ovunque bottiglie, cartacce, festoni, mortaretti scoppiati, avanzi un poco di tutto.
Per il resto, il deserto più completo. Sono il padrone assoluto del lungo lago, perché mi sembra di capire che tutti gli uomini e tutte le donne del nuovo millennio siano ancora sotto le coperte a dormire. O meglio, per amore della precisione, proprio un deserto assoluto no, perché osservo con simpatia nella piazzola antistante l’imponente monumento ai Caduti di tutte le guerre, sotto lo sguardo severo ed accigliato della statua bronzea che raffigura la Vittoria o l’Italia che sia, un ragazzo ed una ragazza, entrambi giovanissimi, che, al ritmo della colonna sonora del loro amore, si stringono in una sfrenata ed indecifrabile danza; non riesco a capire se il loro sia l’ultimo ballo del vecchio millennio o se invece sia già il primo del nuovo, ma ai due giovani questa precisazione non sembra importare più di tanto, perché ogni poco si fermano, si baciano come per caso e poi riprendono imperterriti i loro giri di walzer., con una scenografia degna d’un film di Fellini
Ma, parlando di deserto, mi devo correggere nuovamente, perché, me ne accorgo solo ora, scorgo una persona, l’unica presente sulla passeggiata oltre a me e ai due giovani ballerini,starsene tranquillamente seduta su una panchina: è un uomo più o meno della mia età ed ha la testa leggermente reclinata all’indietro, come sospesa nel vuoto, alla ricerca forse di un poggiatesta che non c’è: porta un cappellino fuori moda ed impertinente, che sembra voler cadere da un momento all’altro; ha gli occhi chiusi, il viso abbronzato, pare crogiolarsi in pieno sole, mentre sulle sue labbra è cristallizzato uno strano sorriso. Sta così immobile, che in un primo momento l’avevo confuso con la panchina stessa, come se si fosse materializzato all’improvviso.

L’uomo non si muove ed io, continuando a camminare, ma un poco più lentamente, quasi con circospezione, lo sto raggiungendo, lo guardo, lo riguardo, mi avvicino silenzioso e lo osservo con sempre maggior attenzione ed apprensione, fino a fermarmi titubante a pochi passi da lui; forse mi sbaglio, certo sto prendendo un abbaglio dopo tanti anni: ma no, no che non è possibile non riconoscere quel viso inconfondibile, anche se ora è incorniciato da una lunga zazzera di capelli bianchi! Chi si potrebbe dimenticare mai di quel ghigno stampato sulle sue labbra, anche se il viso ora è reso rugoso dagli anni e coperto da una folta barba! Mi sono di sicuro imbattuto, dopo molti decenni, in Edoardo, Edo per gli amici; fummo compagni di banco nella quinta ginnasio della scuola Cadorna di Pallanza ed anche abbastanza amici: poi mi soffiò una ragazza… non ricordo più nemmeno il suo nome, mi sembra che fosse una trecciolina della quarta ginnasio, una ragazzetta alla quale iniziavo a tenere molto e di cui forse ero anche un poco innamorato, per come si può esserlo a quell’età; per questo piccolo incidente giovanile i miei rapporti con l’Edo fatalmente s’incrinarono, anche se lui si stupì molto del fatto che problemi di donne, specie degli altri, potessero rovinare un’amicizia. Poi l’Edo fortunatamente cambiò percorso scolastico ed ebbi così la felice opportunità di allentare i rapporti: ci perdemmo di vista, anche se spesso mi giungevano sue notizie da parte di amici che, nel ristretto giro della nostra piccola cittadina di provincia, avevamo necessariamente in comune, anzi, addirittura qualche volta ci incrociavamo qua e là. Tutto ciò, mi sembra incredibile realizzarlo in questo momento, accadeva ben quarant’anni circa prima di quel capodanno del 2000, cioè ieri.

Allungo istintivamente il passo, perché le rievocazioni del tipo “cena-degli-indimenticabili-amici-della-prima-C” non sono il mio forte, anzi, per la precisione le detesto e le ho sempre evitate: non mi piace specchiarmi nell’età avanzante degli altri. Ecco che ce l’ho fatta, l’ho superato, allungo ancora di più il passo, sto tirando un sospiro di sollievo, quando …
«Rinaldi! Tu sei Liborio Rinaldi» – prorompe, nel silenzio assoluto del lungo lago, non troppo forte ma decisa, alle mie spalle la voce dell’Edo, che, chissà come, pur con gli occhi che mi sembravano chiusi, m’ha scorto e, ancor peggio, per sovrannumero m’ha riconosciuto!
Mi giro, costretto a farlo: lo vedo sempre nella stessa posizione, con il capo all’indietro, sospeso nel vuoto, e con il cappelluccio che vuol cadere ma non cade: l’Edo ha solo leggermente girato il viso verso di me e mi traguarda attraverso le palpebre socchiuse.
«Rinaldi! Bravo! Te la stavi svignando come al solito!»
Mi sento mortificato e profondamente in colpa per aver cercato di evitare una persona comunque amica, nonostante i nostri vecchi banali motivi di divisione e screzi, che incontravo dopo così tanti anni. Abbozzando un sorriso stupido e stupito, spalanco le braccia in un gesto che vorrebbe essere riparatore, per accogliere l’Edo e stringerlo a me, pensando che si debba fare così tra amici che non si rivedono da una vita. Ma lui non corre tra le mie braccia, come immaginavo che avrebbe dovuto fare, non si alza neppure, anzi non si muove del tutto.
«E, a proposito, dimmi, già che ci vediamo» – prosegue l’Edo ghignando con fare beffardo – «come sta la Carlina?»
Ecco come si chiamava quella trecciolina della quarta ginnasio, che l’Edo m’aveva soffiato: già, si chiamava proprio Carlina, me l’ero completamente dimenticato, mentre l’Edo probabilmente, quando non riesce a prendere sonno, si ripassa l’elenco delle sue conquiste vecchie e nuove tutte le sere.
In ogni caso la sua battutaccia ha l’effetto di congelare a mezz’aria le mie braccia aperte e distese nel gesto fraterno e di rendermi simile a un inutile spaventapasseri.
«Vieni qui, Rinaldi, siediti un momento accanto a me» – ordina l’Edo senza dare l’impressione di ordinare, fiero del colpo visibilmente andato a segno. Incomincio a ricordare la strana soggezione che provavamo tutti noi ragazzi nei suoi confronti; abbasso disarmato le braccia inutilmente spalancate a ricevere un fantasma che non giunge e, ubbidiente, mi siedo accanto a lui, che gira nuovamente il viso verso il sole e richiude gli occhi, ignorandomi e disinteressandosi completamente di me.

Passa un minuto, due, forse cinque e non succede niente.
Gli striduli gabbiani pescano indaffarati il loro cibo nel lago all’alba del duemila, nello stesso identico modo in cui probabilmente lo facevano già all’alba del mondo. Li guardo affascinato. È una vita che li osservo con un piacere profondo tuffarsi e riemergere o sostare leggeri per un poco sull’acqua: non mi stancherò mai di guardarli e di sognare di poter essere anche solo per una volta uno di loro e di riuscire così a vivere e a provare intensamente fin nelle viscere il sapore e il profumo del lago e divenire lago io stesso. E poi volare lontano.
«Certo che sono ben scomode queste panchine, sicuramente capolavoro di una profonda pensata di qualche architetto del cacchio!» – rompe poi imprevedibilmente e all’improvviso il silenzio l’Edo, facendomi sussultare: preferivo sentire lo stridulo grido dei gabbiani ed il loro chiamarsi a vicenda. E poi prosegue:
«Per non pensare a quello che saranno costate alle nostre tasche di contribuenti! Chissà come faranno ad abbracciarsi e a baciarsi su questa specie di arnese i giovani d’oggi!»
«I giovani d’oggi» – gli rispondo io con un benevolo tono professorale – «fanno i loro comodi a casa o in albergo. È merito del progresso: non fanno più uso né di panchine, né di prati. È tutta roba d’antiquariato, oggetti da museo, esattamente come noi».
«Già. Molti meno reumatismi e ossa rotte. Grande praticità, efficienza e produttività. Ma – Dio mio! – che tristezza! Che monotonia! Che poca fantasia! Meglio starsene qui a prendere il sole e a guardare il lago, per tanto così!»
Parlando, l’Edo non aveva aperto gli occhi e, a pensarci bene, non mi aveva posto nemmeno una vera domanda; la sua era stata una semplice considerazione personale espressa ad alta voce e chissà le volte che s’era già posto il grave problema, chiacchierando solo con sé stesso o agganciando qualche malcapitato nullafacente che, come me, passeggiava tranquillo pensando ai fatti suoi.
Poi, per altri interminabili minuti, più nulla.
Alla fine desidero rompere io questo silenzio assurdo che inizia a infastidirmi e gli dico provocatoriamente, pensando di essere spiritoso:
«Edo, cos’hai combinato di bello in questo mezzo secolo, durante il quale noi ci siamo persi un pochino di vista?»
Domanda idiota, la peggiore domanda che potessi mai fare: prima ancora di finire di parlare, mi sono già pentito d’averla formulata. Ora sono terrorizzato dall’idea che mi risponda con un «e tu?» o qualcosa del genere; invece, lentamente, l’Edo alza il braccio e traccia con la mano un vago cenno per l’aria, a metà tra una benedizione papale ed uno scacciare una fastidiosa mosca.
Poi fa’ ricadere pesantemente la mano al suo fianco, gira il viso verso di me, risolleva leggermente le palpebre e – il ghigno è scomparso dalla sua bocca – mi dice con il massimo della serietà di cui mi possa sembrare capace:
«Mezzo secolo? Di già? E dove diavolo si sono cacciati questi anni? Ed io dov’ero mentre mi sfuggivano così a tradimento? E che specie di cavolo avrò mai fatto di tutto questo tempo?»
Trae, più che un sospiro, un profondo respiro; sembra pensare per un poco e poi mi sibila in un orecchio, come confidandomi un gran segreto, e magari lo è davvero:
«Nulla. Se proprio lo vuoi sapere, Rina» – caspita! mi chiamava così il maledetto nei momenti di confidenza! – «penso proprio di non aver fatto niente di niente che possa interessare ai posteri. Sono scivolato sugli anni più veloce di un pattinatore sul ghiaccio. Silenzioso come un fantasma. Inutile come i ricordi dei vecchi. Forse non ho nemmeno vissuto, anzi, ora che ci penso bene, sono sicuro di non essere nemmeno mai nato. E tu stai parlando non con l’Edo, ma con l’idea che ti sei fatto di me. Quando smetterai di pensarmi, io certamente svanirò. Per cui fai funzionare bene il tuo cervellino, caro il mio Rina, perché avrei intenzione di prendere un poco di sole ancora per qualche tempo».
Sono confuso. Che inizio d’anno! L’Edo rigira il viso verso il sole: chiude gli occhi. Sono certo che dentro di sé, anche se non lo dà a vedere, è soddisfatto del suo discorso e dell’effetto evidente che ha provocato in me: le sue parole mi hanno colpito profondamente, mi lasciano perplesso e pensieroso a riflettere sull’Edo, su di me, sulla vita e le sue incerte realtà e solide apparenze.
Passano così altri cinque minuti di assoluto silenzio, rotto solo dallo sciabordio di un vicino bianco battello impegnato nella prima corsa ascendente del nuovo millennio verso la costa Svizzera. Su e giù tutta la vita, per poi ritrovarsi al punto di partenza. Anche lui, certo, lui come tutti.
Guardo le montagne dell’opposta sponda lombarda del lago specchiarsi perfettamente nell’acqua immobile: quale sarà mai il riflesso e quale la realtà? Sempre che poi importi saperlo.

I due ragazzi ballerini, che avevo notato sul lungo lago, hanno smesso di danzare: forse stanchi (anche l’amore stanca!), si sono seduti su una panchina, tenendosi abbracciati e guardando lontano di fronte a loro; si scambiano di quando in quando un fugace bacio, accompagnato da un sorriso svogliato.

Bene, ne ho abbastanza di tutta questa situazione: questo incontro imprevisto e dagli sbocchi imprevedibili mi ha stancato ed un poco anche intristito, avendo guadagnato da tutto ciò un bel cerchio alla testa: decido di andarmene. Faccio per alzarmi, ma l’Edo, senza guardarmi, intuendo la mia intenzione di svignarmela, mi afferra con energia il braccio con la sua magra mano, impedendomi d’alzarmi. Con un tono di voce inaspettatamente perso e indifeso, mi dice, quasi sussurrando: «ascolta…»

Due ore sono passate, due ore in cui l’Edo, come un fiume che finalmente riesce a sfogarsi dopo essere stato trattenuto troppo a lungo da una qualche diga, ha raccontato ogni dettaglio della sua vita, parallela e talvolta incrociata e sovrapposta alla mia, facendomi riaffiorare sensazioni, ricordi, amici, amorazzi e amorini da tempo, forse troppo, dimenticati, triturati dal tempo e dispersi dalla fredda Intragnola che scende di sera dai monti.
Ora l’Edo ha smesso di parlare. Io mi sento molto imbarazzato, per essere stato portato così a fondo nell’animo di una persona dimenticata, forse rimossa, e che ora piombava nella mia vita, dilaniandola.
Accenno a muovermi, per riprendere la passeggiata interrotta e non pensare più a questo strano incontro, ma l’Edo mi trattiene nuovamente, quasi avvinghiandosi al mio braccio, come un naufrago ad un salvagente.
Se il mio destino nel nuovo millennio è di tribolare, va bene, lo farò: terrò duro anche in questo secolo.

I due giovani non ballano più: mano nella mano si sono già allontanati da tempo.

Sono scosso da un brivido, perché in realtà il sole piano piano si sta velando ed inizia quasi a fare freddo ed il bel capodanno, dopo un’illusione di benevolenza, sta svanendo nelle nebbie del lago.
Ora ho proprio freddo e mi sento profondamente a disagio. Una persona, che avevo completamente dimenticato, si è aperta davanti a me, facendomi assistere ad un film per certi versi familiare. Vedo l’Edo molto provato, angosciato, quasi sofferente, ma io lo sono non meno di lui: se voleva coinvolgermi nelle sue vicende, ebbene, ci è riuscito perfettamente e provo il suo stesso smarrimento.
“Ora vado Edo, mi ha fatto piacere… “ – gli sto dicendo per concludere l’incontro e scrollarmi di dosso questa sottile angoscia che m’ha preso, ma lui non mi ascolta, ha lo sguardo velato, assente, e riprende a parlare.

Il campanile della vicina chiesa di San Rocco batte dodici rintocchi: è mezzogiorno. Durante le tre ore in cui l’Edo ha parlato ininterrottamente, raccontandomi la sua vita, il cielo s’è rannuvolato. La giornata, iniziata festosa di colori, tende lentamente ad ingrigirsi triste e fredda, come il mio cuore, dopo il racconto dell’Edo. Anche il terzo millennio inizia con il piede sbagliato.
L’Edo ora tace, finalmente: il fiume di parole s’è inaridito. Mi sembra stanchissimo, l’Edo, come invecchiato in un solo  colpo di cinquant’anni. Si alza a fatica dalla scomodissima panchina, si stira leggermente gli arti indolenziti, facendo risuonare fastidiosamente tutte le ossa, si sistema meglio il cappelluccio. Ora ho paura io che mi voglia abbracciare, mi alzo e mi porto verso il parapetto del lungo lago. Mi affaccio alla ringhiera, nelle acque calme si specchia il mio viso: mi sistemo il cappelluccio un poco fuori moda per evitare che cada in acqua, mi gratto la barba, Dio che capelli bianchi e arruffati che ho; mi giro per salutare l’Edo col mio gesto abituale, un vago cenno per l’aria, a metà tra una benedizione papale ed uno scacciare una fastidiosa mosca, ma la panchina è vuota, il lungo lago è deserto. L’unica cosa che rimane, quasi sospesa nell’aria, è il racconto d’una vita che avevo dimenticato.

Liborio Rinaldi

 

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