Nella piccola comunità la giornata era trascorsa come al solito: febbrile, ma senza particolari novità. In quell’ameno luogo sulle rive del lago Maggiore del resto i giorni venivano consumati così, sempre molto intensi e senza un attimo di respiro, sempre eguali a se stessi. E tutto ciò non da una settimana o da un mese, ma fin da quando la piccola comunità si era formata, per cui nessuno si ricordava di un modo di vita diverso o anche solo poteva immaginare che esistesse la possibilità di trascorrere le giornate senza lavorare.
Ora, iniziando a tramontare il sole e rinfrescandosi l’aria, l’incessante via vai dei lavoratori andava notevolmente scemando mano a mano che si ritiravano nelle proprie abitazioni per il riposo notturno. Infatti non c’era tra loro l’abitudine d’andare in giro di sera a tirare tardi non per un motivo preciso, ma così, tanto per il gusto di farlo e bruciare il tempo nel nulla. Ma per la verità nessuno di loro, giunte le ombre della sera, aveva poi una gran voglia di bighellonare di qua o di là: intanto c’è da dire che la comunità era molto piccola e non c’era in giro un granché da spassarsela e quindi le tentazioni erano molto poche, per non dire nulle del tutto; poi, dopo una giornata di ininterrotto lavoro, che iniziava alle prime luci dell’alba e proseguiva senza sosta finché c’era ancora un poco di luce, gli abitanti erano tutti molto stanchi e avevano solo voglia di andare a riposarsi, per ritemprarsi ed essere pronti a riprendere il giorno dopo la loro usuale vita alle prime luci dell’alba. Ma nessuno di loro aveva qualcosa da ridire o si lamentava del tanto lavoro e della sua pesantezza e dell’altrettanto poco o nullo svago, perché quello era il loro destino e l’accettavano serenamente, come un dovere assegnato loro da compiere senza porsi troppe domande.
Si erano succeduti alcuni giorni di pioggia continua, anche se non torrenziale, che aveva intralciato non poco il lavoro degli abitanti, rendendo ancora più complicato girare per i viottoli infangati; poiché l’economia della piccola comunità era ancora piuttosto arretrata e si basava esclusivamente sull’agricoltura e sulla caccia, nelle giornate di brutto tempo gli abitanti più anziani erano dispensati dai lavori più pesanti e non uscivano all’esterno della comunità, ma si dedicavano al riordino dei magazzini (tra di loro tutto era messo in comune, non esistendo il concetto di proprietà privata o, peggio, il desiderio di primeggiare l’uno sull’altro).
Altra attività importante era la manutenzione incessante delle strade o, meglio, delle gallerie che collegavano a ragnatela le varie abitazioni, in quanto tutta la comunità viveva sotto terra. Prima che avvenisse il grande Disastro, invece, le residenze erano tutte in superficie. Gli scampati a quel tragico evento, quando si ripresero dallo choc provocato dal grande Disastro, superato lo smarrimento iniziale, impiegarono qualche giorno per radunarsi tra le abitazioni distrutte e le strade ingombre di macerie e ritrovarsi; fatta la conta dei superstiti, pianti (ma nemmeno poi troppo) i morti, decisero, dopo un triste esodo dal loro paese ormai inabitabile, di insediare per sicurezza la nuova comunità nelle viscere della terra, facendo affiorare solo alcune abitazioni, che mascheravano gli ingressi principali e permettevano anche l’areazione del tutto.
Del grande Disastro si parlava sempre meno, perché i ricordi tristi vengono rapidamente rimossi e dimenticati. Solo qualche vecchio se ne rammentava ancora, forse perché aveva più tempo a disposizione per pensare al passato, ma se qualche giovane un poco sfaccendato gli porgeva qualche domanda in merito, gli rispondeva con malgarbo, sia perché i vecchi trattano male i giovani, scorgendo in essi ciò che loro non sono più, sia perché vedevano di malocchio che bigollenassero in giro anche solo per il breve tempo di una domanda, anche se per la verità la più parte di essi – instancabili – trascorreva le giornate ad accatastare fuscelli d’erba o ad andare a caccia di piccoli insetti, vermi e mosche. Non c’era proprio posto in quella comunità per i nulla facenti.
Dunque, come si diceva all’inizio, nel piccolo formicaio dopo la giornata di lavoro tutti si stavano addormentando, quando all’improvviso la terra iniziò a tremare, un agghiacciante rumore si avvicinò sempre di più ed un fortissimo vento spazzò le ultime formiche, che ancora si attardavano attorno agli ingressi. I più anziani alzarono il capo stanco, abbassarono rassegnati le antenne e rabbrividirono: avevano riconosciuto in quel frastuono, accompagnato da un vorticoso mulinellare dell’aria, tutti gli indizi del grande Disastro che, ancora una volta, si stava abbattendo senza pietà alcuna sulla comunità, già così duramente provata. Dunque l’esodo, la fuga, le sofferenze, a nulla erano servite e non avevano potuto evitare di ricadere in quel tragico evento luttuoso.
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L’uomo fischiettava contento. Rientrava a Intra dalla Montefibre di Pallanza dove lavorava costeggiando il lago in auto, prima di raggiungere la sua casetta con praticello salendo fino alla vicina Miazzina. Era contento perché avevano fatto in tempo a riparare la sua tagliaerba; era due settimane che non aveva potuto usarla e l’erba era cresciuta un poco troppo, complice la pioggerellina insistente degli ultimi giorni e la temperatura ancora estiva. Arrivato a casa, l’uomo scaricò il tagliaerba dal baule dell’auto e, sudando non poco, la portò fino in giardino. Andò a cambiarsi, scambiò un veloce saluto con la moglie che stava trafficando in cucina per preparare la cena e, allegro, si accinse al suo abituale lavoro del fine settimana.
Gli piaceva tagliare il prato. La sua casetta era in una bella posizione panoramica e poteva osservare, mentre tagliava il prato, l’azzurro del lago Maggiore che si dispiegava ai suoi piedi e quella vista non gli faceva pesare il lavoro. Ma anche il lavoro vero che faceva in Montefibre, anche se non brillante e piuttosto ripetitivo, tutto sommato lo soddisfaceva. In ogni caso, tagliando il prato, tutti i piccoli fastidi e le banali preoccupazioni del lavoro che si portava a casa, si dissolvevano in un attimo e poco per volta anche la sua mente si sgombrava di ogni pensiero che volava lontano da lui come un bianco gabbiano che si perdeva in lontananza sul lago.
L’erba cadeva docile sotto la nuova lama affilata: ogni tanto si sentiva il colpo secco di un sassolino colpito e scagliato lontano; si fermò un attimo a detergersi il sudore, osservando ancora una volta l’azzurro del lago Maggiore: bastava un refolo di vento e il colore delle acque cambiavano la sfumatura, rendendole sempre più belle.
“Amore, è pronto. Vieni a mangiare?” – gli gridò la moglie affacciandosi alla porta-finestra della cucina.
“Ancora due minuti ed arrivo: ho quasi finito qui davanti; il resto domani!” – rispose il marito, riaccendendo il tagliaerba e riprendendo con maggior vigore il lavoro. Ma ad un tratto un colpo improvviso, molto forte, bloccò quasi completamente la lama e costrinse l’uomo a spegnere il motore del tagliaerba e a spostarlo, per constatare cosa fosse mai successo. Fu così che s’accorse che l’erba alta del prato aveva nascosto la sommità di un formicaio, che sporgeva dal terreno, e l’affilata lama del tagliaerba l’aveva spianato d’un solo colpo.
“Come due settimane fa” – pensò irritato l’uomo – “è di nuovo successo come due settimane fa, solo che allora il formicaio era un poco più in là”.
Capovolse la macchina e guardò sconsolato la lama irrimediabilmente rovinata. Per quel fine settimana, il taglio del prato era concluso.
“E questa è la seconda che ci rimetto!” – disse sedendosi afflitto sul prato, senza badare troppo alle formiche che, senza più rifugio, correvano impazzite da ogni parte.
Mentre l’uomo stava così pensando, il cielo, terso e sgombero di nubi fino a quel momento, si abbuiò ed un vento improvviso, freddo, iniziò a soffiare dall’alto, con sempre maggior violenza, con movimento vorticoso.
Dapprima volarono le prime foglie dell’autunno, che quell’anno era giunto precoce, poi si spostò qualche oggetto, quindi fu un turbinio di tegole che venivano smosse dal tetto e l’uomo, che s’era messo in piedi per osservare stupito ciò che stava capitando, si ritrovò in un primo momento a terra e quindi iniziò a rotolare per il prato. Riuscì ad aggrapparsi ad una pianta per arrestare la sua folle corsa, ma l’albero stesso fu sradicato ed insieme vennero spazzati via e furono proiettati lontano e l’ultima stupidissima cosa che l’uomo pensò, prima di venire inghiottito in un ammasso di macerie ed alberi, fu “mai visto un ciclone sul lago Maggiore. Questo sì che è un grande Disastro!”
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“Capitano, abbiamo iniziato la manovra di discesa” – annunciò il navigatore al comandante Igor.
Erano due anni luce che la navicella aveva lasciato il pianeta Sol2 per affrontare il lungo viaggio. Dopo che, costruito un potentissimo radiotelescopio, erano stati captati dei segnali radio, debolissimi ma sicuramente emessi da esseri umani, il governo di Sol2 aveva deciso di finanziare la missione alla ricerca di questo lontanissimo pianeta appartenente ad un’altra galassia ed abitato certamente da esseri pensanti. Da pochi anni erano state terminate le ricerche sui nuovi vettori, che permettevano alle navicelle di viaggiare alla velocità della luce, e quindi ai loro passeggeri di non invecchiare troppo durante il lunghissimo viaggio.
Finalmente la meta era stata raggiunta, il pianeta da cui provenivano i segnali radio era stato agganciato e la navicella si era messa in parcheggio su un’orbita molto elevata per decidere il possibile punto d’atterraggio, ispezionando le zone sottostanti con i potenti radiotelescopi di bordo. Il capitano individuò una zona con molti laghi e scelse un punto d’atterraggio accanto ad uno di essi, che sembrava favorevole, iniziando così la complessa manovra di discesa. La navicella era molto grande in rapporto agli oggetti del pianeta dove stavano atterrando, la differenza di gravità era pertanto notevole ed il capitano dovette dare ordine di attivare i freni fotonici, concentrandoli sul luogo ove si sarebbero posati, per rallentare la velocità del loro impatto con il terreno sottostante.
“Speriamo che questa turbolenza non provochi qualche grande Disastro là sotto” – pensò il capitano Igor osservando preoccupato sugli schermi di navigazione della navicella lo sconquasso che i razzi fotonici stavano provocando sotto di lui – “non è certo questo il modo migliore per presentarci a questi esseri!”
Ma mentre stava così ragionando senza aver ancora toccato suolo, fu sorpreso perché gli strumenti all’improvviso impazzirono ed i comandi non risposero più e la navicella venne risospinta con una forza inaudita verso gli spazi siderali, come se fosse stata colpita a sua volta da un raggio fotonico di una potenza enormemente superiore a quella che stavano emettendo loro stessi. La navicella, con la strumentazione irrimediabilmente danneggiata, sospinta da questa grande forza si perse per la galassia con il suo carico di navigatori, divenendo pulviscolo insignificante tra le stelle eterne. Un grande Disastro galattico.
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Dio starnutì improvvisamente e per tutto il paradiso si mise in movimento una gigantesca onda d’urto, che, superato il portale d’oro, attraversò i cieli, scese verso i sottostanti mondi investendo tutto sul suo cammino. I pianeti e i soli tremarono solo leggermente, ma le navicelle spaziali, anche di grandi dimensioni, vennero scagliate lontano e si persero nell’infinità.
Ecco la Permacrisis.
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(Questa storia me l’ha raccontata il mio angelo custode, una sera che era in vena di confidenze, davanti ad un bicchiere di vin santo).
Liborio Rinaldi
Nelle foto opera di Achille Tominetti: Il lago Maggiore da Miazzina e Liborio Rinaldi