PONTE NIVIO

PONTE NIVIO

Ho la cattiva abitudine, quando mi sento in debito di vitale ossigeno “intrasco”, di varcare dal varesotto ove colpevolmente abito il lago Maggiore e rivisitare, a guisa di pellegrinaggio, i luoghi della mia infanzia e prima giovinezza, forse per legare il mio passato remoto all’attuale incerto futuro.

In una di queste occasioni, qualche anno fa percorsi la lunga valle del San Giovanni, uno dei due torrenti che abbracciano, quasi soffocandola, Intra. Risalii in macchina la strada che costeggia il corso d’acqua quasi a passo d’uomo, sfidando gli impazienti colpi di clacson e di abbaglianti delle altre macchine dietro di me, ma volevo ammirare con calma la profonda stretta gola nella quale scorre l’impetuoso torrente, che scende vorticoso dalle pendici del monte Zeda erodendo tenace i bianchi levigati massi. Il san Giovanni si concede di tanto in tanto delle pause improvvise di riposo, allargandosi in ampie pozze tranquille del colore del cielo, ma solo per riacquistare un poco d’energia e subito dopo riprendere la sua disordinata corsa verso il vicino lago, come se bramasse raggiungerlo e perdersi in esso. Come l’invidio!

Giunsi a Ponte Nivio. Chissà, forse quel posto fu così stranamente chiamato perché in quella sperduta località si trovava una trattoria con un forno che produceva dalla notte dei tempi del pane bianco come neve per via della farina che lo ricopriva. Quando ero bambino si andava lì partendo da Intra in bicicletta con i miei genitori ed altri amici; si scendeva sul greto del torrente sotto il ponte per raccogliere ciclamini, che s’annidavano numerosi tra le umide rocce. Proprio accanto al ponte sorgeva quella simpatica trattoria e la gita finiva sempre davanti ad un piatto di fumante e saporita polenta, preparata dalla padrona di quel locale tanto alla buona, quanto frequentato.

In quel dì dei ricordi lasciai dunque l’auto in qualche modo in un piccolo slargo di fronte alla trattoria, che mi si presentò subito inopinatamente come un vetusto e malandato edificio: solo socchiudendo gli occhi e con notevole buona volontà, riuscii a risuscitare il ricordo che mi portavo appiccicato nel cuore dai tempi dell’infanzia. La delusione mi si stampò sul viso: non era del resto la prima volta che, partito per visitare un luogo di sogno, ero giunto poi a qualche rudere irriconoscibile o di fronte ad una moderna villetta costruita su un qualche prato che mi ricordavo particolarissimo per via di qualche giovanile innocente camporella.

L’edificio di ponte Nivio era piuttosto in rovina: certo non fungeva più da trattoria; però era probabilmente ancora abitato, perché dalle finestre pendevano numerosi rossi gerani. La vecchia iscrizione, dipinta in colore ocra sul muro, era scrostata e leggibile a fatica; oltretutto era parzialmente coperta da un’insegna più recente al neon, con tutti i vetri infranti.

Accanto alla sgangherata porta d’ingresso stava seduto un uomo, dall’età imprecisata ed imprecisabile, grassissimo; era sprofondato, più che seduto, su un minuscolo seggiolino, che nemmeno si vedeva, ma che si poteva solo immaginare che stesse da qualche parte sotto quella massa enorme. L’uomo teneva le mani appoggiate sulle ginocchia e in quell’immobile positura sembrava quasi un bonzo, il bonzo statuario di Ponte Nivio. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, perso nel vuoto, al punto che nemmeno diede l’impressione di essersi accorto di me.

“Una volta qui” – dissi rivolgendomi all’uomo come per riannodare un discorso interrotto da qualche tempo – “c’era una trattoria, molto frequentata.”

“Una volta” – rispose l’uomo dopo un lungo silenzio, senza guardarmi.

“Una volta. Ora tutto finito.” 

Per dire di no l’uomo non spostava neppure il capo – dava l’idea di essere stanchissimo o forse non ne aveva la forza – ma muoveva solo un paio di volte le pupille degli occhi da sinistra a destra e quindi da destra a sinistra. Alla fine le riposizionava al centro, continuando a guardare diritto davanti a sé e fissando il vuoto: il vuoto della vita.

“Anni e anni fa’” – proseguii volonteroso, senza però riuscire a far resuscitare il passato – “c’era qui una signora che faceva una polenta buonissima.”

“Morta” – rispose l’uomo dopo un nuovo esasperante intervallo di silenzio. “Morta. Tutto finito, ora.”

E riprese a dire di no in quel suo curioso modo.

“Da bambini andavamo giù al fiume a raccogliere ciclamini e ne riempivamo interi canestri” – dissi ancora in un estremo tentativo. ‘Alzati, Buon Passato, alzati e cammina.’ Ma bisogna saperli fare i miracoli ed io non sono mai stato tagliato per quel genere di cose.

“Una volta. Finiti i ciclamini. Qui tutto finito. Per sempre” – disse infine dopo un intervallo ancora più lungo l’uomo. Questa volta non mosse nemmeno le pupille e anzi strizzò gli occhi, come per chiuderli senza chiuderli veramente: intuii che aveva smesso di parlare e che non aveva più nulla da dire.

 

Un poco frastornato, imboccai lo stretto sentiero che scende fino al greto del torrente. Non potevo sbagliarmi: anche se me lo ricordavo ben più grande, il sentiero era proprio quello che avevo imboccato, perché sapevo che iniziava accanto al campo di bocce della trattoria; in effetti, il campo di bocce c’era ancora, ridotto però a un miserevole deposito di mattoni e di rottami di ferro. A testimoniarne il suo uso originale teneva duro, inchiodato ad un palo come un cristiano martirizzato, un orologio metallico segnapunti della birreria Sempione, anche se arrugginito e senza più le due lancette rosse e blu, muto testimone di interminabili partite tra accaniti giocatori e di accese dispute tra un bicchiere e l’altro di rosso freisa.

Scesi quasi di corsa lungo il breve sentiero e giunsi un poco ansante più per l’emozione che per la corsa sul sassoso greto del torrente. Almeno qui il tempo fortunatamente si era fermato e  individuai subito le rocce umide e muschiate tra le quali, bambino, cercavo i ciclamini e la spiaggetta di ghiaia dove giocavo e le liane che dalle alte piante scendevano fin sull’acqua, creando un’atmosfera ombrosa ed ovattata, quasi magica, rotta solo dal rumore dell’acqua.

Dal fiume emergevano grandi sassi bianchi e spesso, giocando a saltare in modo maldestro da uno all’altro, scivolavo e cadevo in acqua, tra grandi risate di parenti ed amici.

 

Ritrovai – la ricordavo perfettamente – la grande pozza di acqua verdissima e perfettamente calma, alta poco più di un metro, in cui si riflettevano le piante, in un perfetto gioco di specchi, dando l’illusione di una doppia realtà: chissà qual era la parte vera e quella riflessa, dipendeva poi solo dal punto di vista, proprio come nella vita. Solo pochi metri più a monte il torrente si riversava nella pozza furioso di mille bianche schiume; poche decine di metri più a valle riprendeva il suo selvaggio aspetto abituale, rompendosi in nuove ribollenti cascate, correndo verso l’ignoto.

“Ecco la mia vita” – dissi ad alta voce a me stesso – “quante passioni turbinose alle mie spalle e ora questa calma piatta. Ma tra poco la vita riprenderà a correre, ma verso dove?”

 

A questo pensiero m’intristii. Non avevo fatto questo tuffo nel passato per pormi domande alle quali nessuno era in grado di dare alcuna risposta. In mancanza di ciclamini da cogliere, spariti per i mutamenti climatici o semplicemente perché non era la stagione giusta, salii su uno dei sassi ed ebbi quasi la tentazione di saltare – tornato fanciullo – da uno all’altro, pur non avendo più l’età giusta, ma per fortuna mi accorsi d’una coppietta che, appartata in un angolo certo non per filosofeggiare, mi guardava un poco perplessa, dando evidenti segni di non aver gradito particolarmente il mio arrivo, nonché manifestando un’evidente preoccupazione per la mia esibizione ginnica. Facendo lo gnorri, battei in ritirata e risalii il sentiero tornando al ponte Nivio.

 

Lo stano individuo era sparito, forse non c’era mai stato, era stata solo una proiezione del mio subconscio, chissà: iniziai a pensare di avere le visioni, ma mi rinfrancai subito, perché tornai nel mondo reale delle certezze grazie ad una concretissima contravvenzione che trovai sotto il tergicristallo della macchina. Mai cercare di resuscitare i fantasmi del passato.

 

Liborio Rinaldi

 

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