Cosa sprofondò nel lago in quella lunga estate del ’62

Cosa sprofondò nel lago in quella lunga estate del ’62

Erano i primi anni che lavoravo e le giornate non erano ancora così fitte d’appuntamenti. Avevo
tempo, tra un cliente e l’altro, per guardarmi un poco d’attorno e soprattutto dentro, operazione
che diviene sempre più difficile col trascorrere del tempo. Trovandomi a Luino, avendo un “buco”
di un paio d’ore, passeggiavo sfaccendato per il lungo lago.
Correva l’anno 1973 e ricordo che era una bella mattina di fine inverno: l’aria, tersa e frizzante,                                                              smaniava già d’ingravidarsi dei profumi della primavera imminente.
Mi trovai a passare sotto il ristorante “Due Scale”, dove, pochi anni più tardi, avrei avuto
l’avventura del tutto casuale di pranzare con Piero Chiara: era giorno di mercato, la sala del
ristorante era gremita di svizzeri e di tedeschi, ad un tavolo d’angolo sedeva, solo ed accigliato, lo
Scrittore, amato cantore del mio amatissimo lago Maggiore. Colsi l’occasione al volo e, afferrato il
coraggio a quattro mani, gli domandai con malcelata indifferenza se non avessi potuto mai
accomodarmi al suo tavolo non essendoci altri posti liberi. “Basta che alla fine non mi lasci da
leggere un libro di poesie” – mi rispose brusco quasi senza alzare la testa, traguardandomi con
sospetto al di sopra di pesanti occhiali. Scoraggiato, ma divertito, mi accomodai ed il pranzo fu
piacevolissimo: Chiara possedeva una sottile ironia ed una grande piacevolezza di conversazione.
Forse perdendo l’occasione della mia vita, finito il pranzo gli ubbidii e non gli lasciai da leggere
nessuna mia poesia.
Ebbi l’avventura – altrettanto casuale – di rivedere Chiara ancora una volta, circa un anno dopo
quell’incontro, sempre a Luino: era seduto ad un tavolino del bar Clerici, accanto al porto; era
tardo autunno: avvolto in un cappotto col bavero alzato, sotto un freddo sole, stava riempiendo
con scrittura minuta dei fogli di quaderno a righe da scuola elementare vecchia maniera, con
davanti un cappuccino gelato; gli passai accanto, accennai ad un saluto, ma, ovviamente, non mi
riconobbe e forse non s’accorse nemmeno di me, tutto immerso com’era a saccheggiare, novello
pirata, la gente qualunque che passava la giornata oziando attorno al porto, arricchendo così il suo
forziere di sfaccendati e nulla facenti, genia di cui qualsiasi lungo lago è sempre gravido.
Quel giorno del 1973, per far passare quelle due orette, mi sedetti dunque su una panchina
accanto al piccolo imbarcadero, assaporando il pesante profumo (chi osa chiamarlo odore?) del
lago, oltre il quale vedevo, in nitida chiostra, riconoscendoli uno ad uno, tutti i monti, ancora
innevati, della Svizzera ticinese e della sponda piemontese: sembrava quasi che mi chiamassero e
che mi volessero abbracciare, come si fa tra vecchi amici che si ritrovano dopo una lontananza, e
magari si è un poco impacciati, non si sa cosa dire ed in quel caldo abbraccio, in quel contatto
fisico, si lasciano parlare i cuori, che trovano sempre le parole giuste.
Vedevo dunque i monti e sotto di essi, nereggianti e perfettamente distinguibili, i ruderi dei castelli
di Cannero.
Quando avevo pochi anni, mio padre ogni tanto mi portava in bicicletta sul seggiolino anteriore da
Intra, mio indimenticato paese natale, a Cannero, alla trattoria “la Gardanina”, dove allora
affittavano una barca piuttosto male in arnese per raggiungere i vicini castelli e visitarli; davano
anche la chiave per aprire il pesante portone del rudere principale.
Là entrati, mio padre mi raccontava la storia (risento ancora i brividi che le sue parole mi
procuravano ogni volta) dei castellani, i terribili fratelli Mazzarditi della Malpaga e mai nomi
furono più appropriati e vincolanti sui destini umani. Intorno al mille e quattrocento i detti fratelli
ed i loro accoliti – raccontava mio padre, infarcendo un poco la storia per renderla più terribile –
sbarcavano il lunario tendendo imboscate alle diligenze postali, che portavano merci e viaggiatori

nella vicina Svizzera. La prassi consolidata, anche per rompere la monotonia delle giornate, era
quella di trucidare gli uomini e di rapire le donne, portandole quindi nei castelli sugli scogli: dopo
averne fatto scempio carnale per lunghi giorni, oramai sazi ed annoiati, i pirati le gettavano nelle
acque del lago, pronti per una nuova avventura.
Tale situazione durò a lungo e si fece insopportabile, al punto che i Borromeo (continuava mio
padre, forse facendo un poco di confusione), che pensavano d’aver reso sicuro il lago chiudendolo
al suo imbocco meridionale verso la pianura con le dirimpettaie rocche d’Angera e d’Arona
(quest’ultima sarà rasa al suolo dal liberatore Napoleone), assoldarono della soldataglia milanese,
armarono dei barconi e cinsero d’assedio i castelli. Dopo più mesi, stremati dalla fame e dalla sete,
i Mazzarditi si arresero; i castelli furono saccheggiati per bene e dati alle fiamme: i pirati,
incatenati ai merli delle torri più alte, vennero cosparsi di pece e fatti ardere come torce, tra gli
“urrà” della popolazione, che si accalcava lungo le rive per godersi lo spettacolo.
La soldataglia, per festeggiare la sospirata vittoria, pensando di meritare la riconoscenza
imperitura della popolazione, specie di genere femminile, per giorni scorrazzò nell’entroterra e
pare che non facesse rimpiangere, per nefandezze e malefatte, i Mazzarditi, al punto che i
Borromeo dovettero mandare in fretta e furia un altro manipolo d’armati per liberare la
popolazione dai liberatori. Questo era il racconto. Chissà, se poi avvenne proprio così.
Con in mente queste vicende, tre lustri più tardi, trovando casualmente nella soffitta di un mio
amico di Antoliva, micro paese sopra Intra, un giallo canotto di salvataggio dell’aeronautica
tedesca della seconda guerra mondiale, finito lì chissà come e perché, venne ad entrambi un’idea
grandiosa.
Era la lunghissima estate del 1962 dopo gli esami di maturità, superati brillantemente, e non
avevamo assolutamente nulla da fare fino a quando, a novembre, sarebbe iniziata l’università.
Grazie ad un furgoncino “prestato” di nascosto dall’inconsapevole padre commerciante di un
nostro amico neo-patentato, portammo in una spiaggetta seminascosta nelle vicinanze di Cannero
il canotto con tutti i suoi accessori; quindi, dopo lunghi preparativi e prove, nel mese di luglio
partivamo dalla nostra base segreta e approdavamo, giungendo come Nibelunghi dalle acque, alle
spiagge dei campeggi di Cannero e talvolta di Cannobio, suscitando meraviglia e ammirazione tra
le campeggiatrici nordiche, le quali oltretutto, alla vista del canotto con tanto di scritte in tedesco,
si sentivano scuotere e travolgere da fiero amor patrio. Deutschland über alles!
Si raggiungevano i vicini castelli (per entrare ormai la chiave non serviva più, tale era avanzato il
degrado), li si abbordava, li si conquistava; spesso nel salone principale, con le pareti che recavano
ancora visibili tracce d’affreschi con scene di nobili che cacciavano cervi e satiri che con maggior
profitto cacciavano floride matrone discinte, si accendeva sul pavimento, tra vaghi residui di
mosaici, un fuoco per arrostire un paio di salamini, mentre attraverso le pareti squarciate si
scorgevano ampi orizzonti di lago blu.
Erano gli anni in cui Gino Paoli cantava “questo soffitto viola non esiste più: io vedo il cielo” ed
anche noi, attraverso il soffitto crollato, vedevamo il cielo, l’azzurro, la luce, il sole, l’infinito.
Eravamo pirati, eravamo castellani, eravamo rapitori di fanciulle smaniose d’essere rapite,
eravamo padroni del mondo: eravamo giovani senza tempo, immortali.
Ma la vita gira, gira e se ne va, e anche quell’estate finì: i campeggi chiusero, le bionde fanciulle
rientrarono penitenti ma non troppo tra le nebbie nordiche e noi riportammo il canotto ad Intra,
in una giornata improvvisamente fredda di fine Settembre. Per forza di cose dovemmo rientrare
via lago, perché il padre del nostro amico, forse avendo intuito qualcosa, sorvegliava a vista le
chiavi del furgone. Dopo una lunghissima e faticosissima remata, stremati e infreddoliti,

avvistammo felici la bianca colonna del porto vecchio di Intra, provando la stessa gioia, se non
maggiore, di quella dei pescatori quando la scorgevano rientrando dalle fatiche notturne.
Ci mettemmo infantilmente a cantare a squarciagola i versi del De Lorenzi: Quand at vèghi da
luntan, o colona d’ul noeust port…”, quando qualcos’altro si squarciò.
Nel canotto si formò all’improvviso un forellino, dal quale iniziò ad uscire sibilando allegramente
l’aria. Indossammo subito i giubboni salvagente di sughero, originali tedeschi: io mi misi a remare
furiosamente, mentre il mio amico pompava di gran lena per tentare di recuperare l’aria che
usciva in gran quantità. Ma in breve il forellino divenne foro, il foro squarcio ed il canotto
s’inabissò inesorabilmente più o meno all’altezza della foce del torrente San Giovanni, ove forse
giace tuttora.
Noi ci trovammo a galleggiare in acqua, sballottati dalle fredde onde, annaspando lentamente, più
impacciati che agevolati dai giubboni salvagente. Come Dio volle riuscimmo a raggiungere l’ormai
vicina riva, evitando così, capitani quaquaraquà, di affondare molto poco dignitosamente con la
nostra imbarcazione proprio giunti quasi all’imboccatura del porto.
C’incamminammo lentamente verso casa: tristi, infreddoliti, stanchi, con i vestiti grondanti acqua
ed indossando i giubboni tedeschi. Tutti ci guardavano, perplessi e quasi timorosi, ma noi, assorti
nei nostri pensieri, non ce ne accorgevamo nemmeno. Avevamo in noi una sensazione di un
qualcosa, che non riuscivamo a decifrare completamente. S’era conclusa l’estate, dopo poche
settimane entrambi avremmo iniziato un nuovo ciclo di vita, che tra l’altro ci avrebbe avviato per
differenti vie, facendoci perdere di vista: ci attendeva l’avventura dell’università e con essa
saremmo entrati per sempre negli ingranaggi della vita, che ci avrebbe sminuzzato per benino.
All’improvviso mi scossi: era passata da un pezzo l’ora di tornare al lavoro e il secondo
appuntamento era saltato per colpa mia che m’ero imbambolato avviluppato dalle nebbie dei
ricordi. Mi alzai lentamente dalla panchina mezzo intorpidito: facendo crocchiare le ossa, mi
stropicciai gli occhi velati, forse dal freddo, forse da qualcos’altro, chissà.
Guardai per un’ultima volta i Castelli, che ora si intravedevano solo, avvolti da sottili strati di
nebbia: dalle torri sembravano salire grigi sbuffi filiformi: che fossero le sagome dei fantasmi dei
Malpaga ancora appiccati sui torrioni che oscillavano al vento? O forse era il fumo provocato da
qualcuno entrato fin nel salone che arrostiva due salamini? Fesserie. Tornai alla realtà, al lavoro.
Ma mentre scrivo queste note mi rendo conto solo ora, così, all’improvviso, che in quel lontano
giorno di settembre del 1962 io e il mio amico camminavamo verso casa storditi e smarriti, perché,
anche se allora non potevamo saperlo, era sprofondato nel lago non tanto un canotto, quanto la
nostra gioventù.

Liborio Rinaldi

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